Come nella metafora di Dante sulla pantera, il cui profumo si sente ovunque, ma non si trova da nessuna parte, in La Sicilia di Caravaggio, l’artista viene raccontato senza che sia concretamente presente: non mediante le sue stesse opere, ma attraverso l’effetto che è riuscito a scatenare nella produzione artistica di chi è entrato in contatto con lui, in modo più o meno diretto, agli inizi del 1600.
Il Difforme, ha avuto il piacere di intervistare il curatore, Pierluigi Carofano, che ha raccontato le idee alla base del progetto, evidenziando la presenza di alcune particolari opere, capaci di dare vita a dibattiti interessanti.
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Dopo oltre 400 anni dalla sua morte, Caravaggio riesce ancora a emozionare chiunque si ritrovi ad ammirare le sue opere. Eppure, La Sicilia di Caravaggio non è una mostra incentrata sull’artista in sé, quanto sull’influenza artistica che ha scatenato nella regione a seguito del suo arrivo all’inizio del 600. Come nasce l’idea per questa mostra?
“La mostra è incentrata sugli artisti siciliani che hanno conosciuto Caravaggio in Sicilia, a Roma o a Napoli, e che in seguito hanno espresso, nella propria arte, una forma di adesione o addirittura contrasto al suo stile e la sua poetica: i cosidetti caravaggisti di prima e seconda generazione”.
“Caravaggio è stato in Sicilia per poco tempo, dal 1608 al 1609, e la mostra che sto curando è pertanto un progetto dedicato all’influenza, ma anche alla reazione, che Caravaggio ha suscitato in questi artisti, dall’inizio del 1600 fino agli anni cinquanta dello stesso secolo. Una mostra dedicata tanto alla fortuna quanto alla sfortuna dell’eredità dell’artista”.
Nel raggruppare opere di tanti artisti diversi, parliamo di ben 30 dipinti, quali sono le difficoltà principali che si incontrano in un percorso da curatore come questo?
“Le difficoltà sono molteplici perché il curatore di una mostra ha in mente un’idea, ma poi, per svilupparla, i percorsi percorribili sono molteplici. C’è bisogno innanzitutto di disponibilità da parte dei musei, e fortunatamente abbiamo avuto davvero una grandissima adesione, a cui hanno partecipato musei di tutta la Sicilia. A questi, si è aggiunta anche la fortunata partecipazione del Museo Nazionale di Belle Arti della Valletta, a Malta, dove Caravaggio visse tra il 1607 e il 1608”.
“La difficoltà principale Comunque è stata che, in questo periodo dell’anno, generalmente in Sicilia ci sono molti visitatori, i musei sono aperti, e privarsi di opere davvero molto importanti può essere complesso per una struttura museale. Nonostante questo, l’idea della mostra è risultata convincente e i musei hanno accettato di partecipare”.
“Di questi, Palazzo Abatellis ha offerto sette opere, mentre da Castello Ursino di Catania ne sono arrivate due, tra cui la copia della Natività perduta di Caravaggio, opera che nel 1600 Caravaggio stesso spedì da Roma a Palermo, dove fu poi trafugata per non esser mai più ritrovata. L’opera che viene esposta è invece del 1626-27, dipinta da Paolo Geraci, un autore palermitano”.
La struttura che accoglie la mostra è stata divisa in tre sezioni separate, ciascuna dedicata ad aspetti diversi dell’influenza di Caravaggio in Sicilia e agli artisti che lo hanno succeduto. Quali sono gli elementi centrali di ciascuna sezione?
“La prima è dedicata agli artisti che hanno subito l’influenza di Caravaggio: a partire dai siciliani come Mario Minniti, uno dei migliori amici dell’artista, colui che lo accoglie in Sicilia e lo aiuta a ottenere la commissione del Seppellimento di Santa Lucia di Siracusa. Poi Alonzo Rodriguez, pittore spagnolo di origine messinese che lo imita moltissimo. Giovanni Bernardo Azzolino, altro imitatore di Caravaggio, suocero di Jusepe de Ribera, il più grande pittore caravaggesco. Ma in questo periodo ci sono anche molti autori napoletani che vedono Caravaggio a Napoli e, tempo dopo, mandano alcune delle loro opere in Sicilia”.
“La seconda è una testimonianza di una pittura che passa dal naturalismo a una pittura più barocca. Caravaggio muore nel 1610, ma nel 24-25, a Palermo, è presente Antoon van Dyck. Sono situazioni diverse che si sovrappongono, si influenzano e convivono in varie fasi artistiche della vita di un autore o di un insieme di autori. La terza stanza è invece un ritorno all’ordine: un insieme di autori che cercano di fare una sintesi tra l’arte di Caravaggio e l’arte barocca”.
La mostra ospita molte opere di artisti influenzati da Caravaggio, ma in effetti è presente anche un’opera attribuita al maestro: il San Giovannino alla Fonte, arrivato da Malta...
“Su questo è necessario fare una precisazione: negli anni 50, Roberto Longhi, massimo esperto di Caravaggio, studiò il San Giovannino alla Fonte attribuendolo all’artista. Ma c’è una corrente di pensiero, che si deve a Gregori, che ha trovato un’altra versione di questo quadro, secondo cui invece il dipinto non possa essere attribuibile a Caravaggio”.
“Il museo stesso della Valletta ha detto che i quadri vanno studiati, e l’unico modo per studiarli è farli vedere. Pertanto abbiamo fatto restaurare il quadro e lo esponiamo finalmente restaurato per dare l’opportunità a tutti gli studiosi di osservare il dipinto con i propri occhi, e magari di mettere in moto un dibattito e un confronto di idee sull’argomento. Infatti, noi abbiamo preferito scrivere ‘attribuito a Caravaggio’ e non Caravaggio e basta”.
Quindi, secondo lei, c’è la possibilità che la mostra diventi uno spunto per consentire una nuova rivalutazione dell’opera?
“Esattamente. L’importanza di una mostra è anche quella di promuovere uno studio approfondito delle opere esposte. Ad ogni modo, la qualità dell’opera è altissima, tanto nella tecnica quanto nel soggetto rappresentato, estremamente moderno: un ragazzo assetato che compie un gesto spontaneo, chinandosi per bere avidamente da una fonte”.
“Un’altra opera particolarmente degna di nota, presente alla mostra, è un ritratto di Alof de Wignacourt, l’ultimo protettore di Caravaggio: fu infatti proprio lui a dargli il cavalierato. Esiste un ritratto dipinto dallo stesso Caravaggio che è esposto al Louvre di Parigi, ma quello che invece esponiamo noi è di scuola caravaggesca. Dal dipinto Si può notare che Wignacourt indossa un’armatura da parata, e pertanto, il dipinto deve essere stato realizzato per un’occasione particolare, molto importante. Un pezzo di grande rilevanza che merita di essere esposto e studiato con attenzione”.
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