Modena, per i giudici gli omicidi compiuti da Montefusco hanno “motivi umanamente comprensibili”. Roccella: “Elementi preoccupanti”

Salvatore Montefusco era l'uomo imputato per aver ucciso moglie e figlia a giugno 2022; la Corte d'Assise di Modena lo ha condannato a trent'anni di carcere in quanto avrebbe riconosciuto "nefaste dinamiche famigliari"

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Un caso di doppio femminicidio che sembra sia stato frutto di un’opprimente condizione coniugale e famigliare. Era 13 giugno 2022, quando Salvatore Montefusco uccise sua moglie e la figlia di lei in un momento che verrà definito di “black-out” prettamente psicologico. Il 9 ottobre scorso, la Procura di Modena aveva, difatti, deciso di procedere alla richiesta di trent’anni di carcere per l’imputato piuttosto della pena perpetua dell’ergastolo. Sentenza di cui solo oggi si sono conosciute le motivazioni, che di fatto sorgono nella valutazione da parte dei giudici delle attenuanti generiche per Montefusco equivalenti alle aggravanti.

Una decisione che viene motivata dalla Corte di assise di Modena in ragione “della comprensibilità umana dei motivi che hanno spinto l’autore a commettere il fatto reato”. Le considerazioni che vengono poste in atto si riferirebbero proprio la concessione delle attenuanti generiche che riguardano nello specifico la confessione dell’imputato, la sostanziale incensuratezza di Montefusco, il corretto contegno processuale e la “situazione che si era creata nell’ambiente famigliare e che lo hanno indotto a compiere il tragico gesto“.

Difatti, l’uomo sarebbe “arrivato incensurato a 70 anni, – prosegue la sentenza – non avrebbe mai perpetrato delitti di così rilevante gravità se non spinto dalle nefaste dinamiche familiari che si erano col tempo innescate“.

Roccella: “Si rischia arretramento nella lotta ai femminicidi

Il commento della ministra per la Famiglia e le Pari opportunità sulla sentenza di Modena non si è fatta attendere ed è stata durissima. Secondo Eugenia Roccella, infatti, il contenuto della sentenza della Corte di Assise presenterebbe “elementi assai discutibili e certamente preoccupanti“, che potrebbero comportare sia un “arretramento nell’annosa lotta per fermare i femminicidi“, sa un “vulnus nelle fondamenta che reggono il nostro ordinamento“.

La ministra ha sottolineato la volontà di leggere integralmente il contenuto della sentenza, ma ha anche sottolineato che il problema di fondo non risiederebbe nella comminazione della pena o nella sua entità, ma nelle valutazioni processuali proprie dell’esercizio della giurisdizione“. A preoccupare, infatti, sarebbe il ragionamento che ha orientato la Corte, che, secondo quanto si legge nella sentenza, ritiene che “la situazione che si era creata nell’ambiente familiare avrebbe indotto l’imputato a compiere il tragico gesto“.

Roccella ha quindi sottolineato la pericolosità che questi ragionamenti nascondono, perché se si affermasse un principio di questo tipo, per cui “un nesso casuale può indurre ad un duplice omicidio“, allora si rischierebbe che il cambiamento culturale per cui in Italia si sta lavorando possa in qualche modo fare diversi passi indietro invece che progredire.

Il reato di Montefusco

Gabriela Trandafir aveva 47 anni mentre sua figlia Renata 22, quando vennero assassinate a colpi di fucile dall’imprenditore edile di origine campana a Cavazzona di Castelfranco Emilia. Un reato per il quale la Porcura di Modena aveva difatti chiesto l’ergastolo per Montefusco. Il 9 ottobre scorso però, i giudici con il presidente estensore Ester Russo, riconoscendo le attenuanti rispetto alle aggravanti di rapporto di coniugio e l’aver commesso il reato di fronte al figlio minore della coppia ed escludendo la premeditazione dell’imputato, i motivi abietti e futili, e l’aver agito con crudeltà, hanno ritenuto assorbiti i maltrattamenti nell’omicidio.

Ad aver portato i giudici ad esprimere tale giudizio, che potrebbe lasciar perplessi nonché sollevare non poche polemiche, è stato il denunciato contesto di forte conflitto tra Montefusco e le due donne che avrebbe addirittura condotto a porgere denunce reciproche. La sentenza, infatti, spiega dettagliatamente in 200 pagine le condizioni in cui l’imputato si trovava a vivere e che lo avrebbe quindi indotto a compiere l’estremo gesto.

Secondo i giudici il movente che si trova alla base dello scatto dell’uomo “non può essere ricondotto e ridotto a un mero contenuto economico” sulla casa dove viveva con le vittime e il figlio. Piuttosto, sarebbe necessario riferirsi “alla condizione psicologica di profondo disagio, umiliazione e enorme frustrazione vissuta dall’imputato, a cagione del clima di altissima conflittualità che si era venuto a creare nell’ambito del menage coniugale e della concreta evenienza che lui stesso dovesse abbandonare l’abitazione familiare“, oltre al controllo e alla cura del figlio.

Quindi, tenendo conto di tali situazioni e dalle dichiarazioni di Montefusco, ai giudici risulta “plausibile” che nell’ennesimo momento in cui Renata avrebbe comunicato all’uomo di dover lasciare l’abitazione, quest’ultimo “abbia determinato nel suo animo, come dallo stesso più volte sottolineato, quel black-out emozionale ed esistenziale che lo avrebbe condotto a correre a prendere l’arma“. Si tratta, di un fucile a canna mozza, detenuto senza permesso e con la matricola abrasa, che si trovava a pochi metri di distanza dall’imputato, con cui avrebbe poi ucciso le due donne che, stando a quanto dichiarato da testimoni sentiti in aula, “mai e poi mai” avrebbe prima di quel momento minacciato di morte.

In verità, erano emerse anche numerose denunce per comportamenti violenti dell’uomo, maltrattamenti, stalking, furto e appropriazione indebita, ma troppo frettolosamente archiviate. Accuse dche sono state definite dai legali difensori di Montefusco “strumentali.

Dunque, in questa situazione alquanto complessa da giudicare, nel valutare l’equivalenza tra attenuanti e aggravanti, la Corte avrebbe teneto conto anche “di tutta quella serie di condotte unilaterali e reciproche che, susseguitesi nel tempo e cumulativamente considerate“, nonostante non abbiano integrato l’attenuante della provocazione, hanno però “senz’altro determinato l’abnorme e tuttavia causale reazione dell’imputato“. Motivi per i quali, è stata sentenziata la condanna a 30 anni e non all’ergastolo, oltre a cinque anni di libertà vigilata e a un milione di euro di provvisionale nei confronti della parte lesa, ossia il figlio.

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