Carlo Biffani, esperto internazionale di sicurezza e intelligence, riflette sui comportamenti provocatori del boss prima della cattura: “Alcuni criminali alzano l’asticella”
“Credo che una delle mille ragioni possa essere individuata nella sfida che criminali di questo rango sentono di dover combattere contro chi gli dà la caccia”. Uno degli elementi più discussi di questi giorni in merito alla cattura di Matteo Messina Denaro è il comportamento tenuto dal boss prima della cattura. A irritare più di qualcuno, anche i selfie che il latitante si scattava con chi era intorno a lui, persone comuni, ma anche medici e altri professionisti. Ne parliamo con Carlo Biffani, esperto internazionale di intelligence, sicurezza e terrorismo, volto noto tv come esperto del settore, nonché tecnico ascoltato anche dalla Nato.
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Nella storia giudiziaria italiana non è la prima volta che si registrano comportamenti provocatori da parte di latitanti. Quale può essere la chiave di lettura?
Credo che, forse, una delle mille ragioni possa essere individuata nella “sfida” che criminali di questo rango sentono di dover combattere contro chi gli dà la caccia. La storia ha più volte riproposto questo approccio. Basterà, solo per fare un esempio, andare agli anni ‘80 ed alle cartoline “con tanti saluti” inviate da Felice “Felicetto” Maniero, sanguinario pluriomicida boss della Mala del Brenta, ai poliziotti ed ai carabinieri che gli davano la caccia, spedite dai luoghi che attraversava in latitanza. Inutile aggiungere che lo stesso Maniero da truce e spregiudicato assassino, una volta nelle mani della polizia, si trasformerà in un docile arrestato, come se di colpo l’arroganza fosse stata lavata via dalle manette ai polsi.
Quale potrebbe essere la dinamica psicologica che si crea nella mente del latitante?
C’è chi se sostiene tra i criminologi, che tali soggetti, nel loro intimo, quasi tendano, in latitanza, specialmente in situazioni così prolungate nel tempo, a voler essere catturati. Ed uno dei motivi sarebbe anche quello di non tollerare, in fondo, che di loro non si parli più, oltre che poter deridere chi poi li catturerà mostrando il ghigno una volta ammanettato, quasi a voler dire: se non fosse stato per me e per l’aiuto che vi ho dato…! Come a volersi attribuire meriti anche una volta chiuso il cerchio. La storia recente della criminalità messicana ha visto non di rado i capi narcos, sfidare le autorità con atteggiamenti irragionevoli ed in buona misura autolesionistici. Credo che questa potrebbe essere una interpretazione possibile solo se si immagina un uomo stanco, malato, che da trent’anni fugge, e che forse, per quanto a livello inconsapevole, non ne possa più di nascondersi o peggio, di essere finito nel dimenticatoio, non certo degli inquirenti ma della opinione pubblica, tanto più se si parla di una personalità con un carattere egocentrico ed edonista come è nel caso del boss mafioso arrestato nei giorni scorsi.
Quindi potremmo essere di fronte a una sorta di “sfida” personale?
È come se ogni giorno alcuni criminali provassero ad alzare l’asticella della sfida, beandosi di quanto stiano facendo fessi coloro che li cercano, dall’alto della apparente inviolabilità prolungata nel tempo. E tutto questo, ribadisco, senza nulla togliere alla straordinaria abilità di chi lo ha catturato e gli ha dato la caccia in tutti questi lunghi anni e non ha mai mollato la presa.
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