Era una sera del 12 ottobre 2022 e, nel carcere di Casa Massama ad Oristano, in una cella di transito, c’era Stefano Dal Corso, un detenuto appena arrivato dal carcere di Rebibbia per un’udienza riguardante un secondo processo per capi di accusa minori. Era lì specialmente per un motivo: la possibilità di rivedere sua figlia di sette anni che viveva proprio lì, nel comune sardo.
Ma quella sera, nonostante la volontà di rivederla, nonostante non ci fosse nessun segnale di depressione o intenzioni autolesioniste da parte del detenuto e nonostante il fine pena previsto per dicembre 2023 (ma anche qualche mese prima con liberazione anticipata), è stato trovato morto, nella sua cella, impiccato con un lenzuolo. Forse ci sarebbe da specificare che il fatto del suicidio è stato riportato dalle autorità competenti più che supportato da fatti, visto che, delle prove di questo suicidio, non ve n’è traccia. Niente foto del detenuto impiccato, niente lenzuolo, niente di niente.
Perché ci sono tutti questi “forse” intorno alla storia di Stefano? Gli elementi sono molteplici.
L’incoerenza delle prove
La prima cosa che insospettisce è sicuramente l’incoerenza del gesto da parte di un uomo apparentemente non depresso e che non aveva motivi per togliersi la vita. Inoltre, nel giro di pochi mesi, sarebbe uscito dal carcere e avrebbe riabbracciato la compagna e la figlia. Tutte queste informazioni sono contenute nelle lettere scritte da Stefano datate 10 ottobre 2022, due giorni prima del suicidio, indirizzate alla compagna romana, dove scriveva di voler riprendere in mano la sua vita al più presto.
La seconda incongruenza sta sicuramente nella dinamica del suicidio. Il letto era intatto, non c’erano pedate, non mancavano lenzuola o coperte. Dalle fotografie scattate dalla procura si vedono le grate della finestra dove Stefano si sarebbe impiccato e il residuo del lenzuolo che lui avrebbe utilizzato. Ma se la cella aveva un solo letto e non mancava nulla, dove l’ha preso il lenzuolo per ammazzarsi?
Altra assurdità è la diagnosi di “rottura del collo” senza TAC o autopsia. Impossibile da determinare ad occhio nudo. Infine, la stranezza delle foto che sono sospette sia perché sono poche e sia perché non mostrano Stefano nel momento del ritrovamento (presumibilmente avrebbe dovuto essere fotografato impiccato) e nessuna foto di lui nudo.
Il pacco sospetto
Un altro mistero aleggia poi intorno alla storia del pacco anonimo. L’8 marzo, a casa di Marisa Dal Corso, la sorella di Stefano, dove il detenuto viveva agli arresti domiciliari prima di entrare nel carcere di Rebibbia, è arrivato un pacco di Amazon. Su quest’ultimo non c’era mittente e appare solo il destinatario “Stefano Dal Corso, scala G interno 8 citofono rotto”. La cosa inquietante è che al suo interno conteneva un libro dal titolo “Fateci uscire da qui” dove nell’indice erano stati cerchiati due capitoli: “la confessione” e “la morte”. Ad Amazon non risultava nessun pacco inviato a casa di Marisa, nessuno sapeva nulla. L’avvocato Armida Decina, per cercare di capire chi l’avesse spedito, ha depositato una denuncia alla polizia postale e alla Procura della Repubblica del tribunale di Roma.
L’autopsia negata
“Bisogna fare un’autopsia” dichiarò l’avvocato Decina la prima volta che parlò con la sorella di Stefano, “ma il carcere me l’ha negata” rispose lei.
Così iniziò l’iter da parte dell’avvocato Decina per cercare di ottenerne una. Ha deciso di muoversi tempestivamente e ha inviato un’istanza immediata alla procura di Oristano: mandata l’istanza venerdì pomeriggio, sabato mattina ricevette subito il responso negativo da parte della procura.
“Ho chiesto immediatamente le cartelle degli atti – ha raccontato dettagliatamente l’avvocato Decina durante la conferenza dedicata al caso di Stefano Dal Corso al Senato, il giorno 29 marzo – e quindi le cartelle cliniche di Stefano, della relazione del medico legale e delle fotografie. Quando aprii la documentazione, trovai 13 foto e la prima cosa che notai era la mancanza delle fotografie di Stefano al momento del ritrovamento e, cosa più importante, mancavano gli scatti del corpo nudo. Ora, in circostanze del genere, io sono abituata a trovare un album fotografico diverso. Quando ho chiesto il perché non ci fossero queste fotografie non ho avuto risposta perché in realtà nessuno me l’ha saputa dare”.
“Sta di fatto che, con il poco materiale in nostro possesso, attraverso il garante per i detenuti, arriviamo ad avere una consulenza e un parere medico legale da parte della Dottoressa Cattaneo, incaricata di visionare la documentazione che avevamo. Dalle poche immagini visionate si intuisce che vi è un solco al collo con margini arrossati ma questo unico elemento, afferma la dottoressa, non può essere dirimente per una diagnosi di morte per impiccamento” spiega l’avvocato.
Sta di fatto che l’autopsia giudiziaria è fondamentale in questi casi per sciogliere determinati nodi. Il solco al collo è l’esito dell’impiccamento o di un precedente strangolamento seguito da una simulazione di impiccamento? Il soggetto era vivo al momento dell’impiccagione? Ci sono dei segni interni coerenti con l’ipotesi di asfissia meccanica?
L’avvocato Decina presenta, infine, una nuova istanza il 3 gennaio del 2023, allegando il parere medico legale. Quello che ha ricevuto? Il silenzio più totale fino a che, dopo alcune telefonate, è riuscita a parlare con la Dottoressa Ghiani, in maniera informale, che le ha riferito il parere del medico legale, giunto a conclusioni diverse.
La raccolta fondi
L’unica strada sembra quella di riuscire a raccogliere il denaro necessario per effettuare l’autopsia e capire come stanno veramente le cose. Per questo, la famiglia di Stefano ha chiesto 8.000 euro tramite crowdfunding per sostenere le spese necessarie che servono per pagare l’autopsia, unica via per arrivare alla verità.
“Vogliamo solo un’autopsia. – dichiara la sorella Marisa – Vogliamo solo sapere cosa è successo. Non credo che mio fratello abbia potuto fare una cosa del genere. In primis per sua figlia, che ama follemente, e poi per la sua compagna attuale. Nelle tante lettere che ha spedito pochi giorni prima che morisse ha lasciato intendere tutt’altro. Parlava di ricominciare e già si era interfacciato al mondo del lavoro facendo colloqui con delle persone che l’avrebbero potuto aiutare. È mio fratello e io non ci credo”.
© Riproduzione riservata