Giovani e abuso di alcool, la psicologa: “Dai genitori serve ascolto attivo”

Sara Rossi
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Un quindicenne è finito in coma etilico sabato ad Arezzo: episodio che rilancia le riflessioni sul mondo giovanile, sul ruolo della pandemia e sul rapporto tra genitori e figlio. Intervista alla psicologa Valeria di Loreto

Sono le 23.20, relativamente presto nella notte di un sabato, ad Arezzo, quando i soccorritori trovano un ragazzo di quindici anni su una panchina del centro storico: a chiamare aiuto sono gli amici, in compagnia dei quali il giovane stava trascorrendo la serata. In condizioni gravi, è subito intubato e trasportato all’ospedale San Donato, sottoposto a cure specifiche e ad analisi che restituiscono la causa del malore: abuso di alcol. Non trattandosi di un caso isolato, la redazione del Difforme ha deciso di porre qualche domanda a Valeria di Loreto, psicologa esperta nel parenting, per fare luce su questo fenomeno che coinvolge fasce di popolazione sempre più giovani.

Sabato ad Arezzo un quindicenne è finito in coma etilico: ci può spiegare cosa potrebbe spingere un adolescente a fare uso (o addirittura, come in questo caso, abuso) di alcol?

Sicuramente c’è, com’è risaputo, un desiderio di trasgredire, da cui l’età adolescenziale è caratterizzata, unito al gusto di farla franca. È compito evolutivo mettere in discussione i modelli e in parte è anche un approccio corretto per giungere a un’identificazione: nell’infanzia, il bambino dipende dai genitori e prende per buono tutto ciò che questi propongono: per trovare la propria identità, bisogna mettere in discussione. Mi spiego meglio: la trasgressione, entro certi livelli, può essere considerata sana, poi ci sono sfumature o comportamenti che vanno oltre il limite consentito, fino all’illegalità con l’uso e il consumo di droghe o, in alcuni casi, alcol. Quindi il desiderio di trasgredire è quello che muove e straborda perché a quell’età non c’è una vera percezione del rischio né una corretta informazione a riguardo: ciò che è rischio viene normalizzato o demonizzato e può diventare un problema quando finisce per diventare un momento socializzante, perché è facile passare dal delirio di onnipotenza alla perdita del controllo. In ultimo c’è la necessità di sentire qualche cosa: si tende a pensare che gli adolescenti siano anarchici, quando invece sono rigidissimi, proprio perché dentro stanno cambiando, e pensano di superare questa rigidità tramite un comportamento che agisca sui freni inibitori. È lo stesso ruolo che gioca la natura quando, da esseri umani, non ci comportiamo in base alle leggi che governano la vita, ma tentiamo di stravolgerla: l’ambiente rispecchia il nostro mondo interiore, come nella filosofia buddista. Allo stesso modo in cui le guerre rispecchiano i nostri mondi su larga scala.

La pandemia ha giocato un ruolo in questa partita?

In un certo senso, sì: il disagio alla base era preesistente, ma la pandemia ha acuito una condizione che c’era già prima, mettendovi sopra una sorte di occhio di bue. Per tanto tempo i ragazzi sono stati confinati, quindi ora sentono la necessità di rompere le catene. I contesti che potevano essere aggreganti in modo sano si sono fermati, quindi in certi casi la movida finisce con l’essere l’unico modo per aggregarsi e confrontarsi tra loro. Che poi si può dire “confronto”, ma lì non c’è un reale scambio, un arricchimento. Inoltre per i luoghi aggreganti in cui i ragazzi si possono incontrare tra pari, fare attività consone alla fase di sviluppo che stanno attraversando e che abbiano valenza formativa tale da creare valore la nostra società non è minimamente attrezzata: se va bene, ci sono i luoghi in cui si pratica sport, ma anche lì è sempre un po’ una cabala, perché spesso si sfocia in comportamenti facinorosi; altre volte ci si può riuscire, ma tra gli altri impegni, i compiti e il fatto che non è bene integrato nella giornata scolastica, sta allo studente ritagliarsi il proprio tempo rischiando di non poter godere a pieno del contesto sportivo e delle figure di riferimento che, ci si aspetta, abbiano una adeguata preparazione dal punto di vista tecnico e psicologico. Altri esempi possono essere quei contesti di intrattenimento puro che però non contemplino la trasgressione, se non quella sana e necessaria per mantenere uno spirito critico e non omologarsi, cosa che nella vita chiunque impara “sul campo” e spesso neanche bene.

Il fenomeno sembra riguardare ragazzi sempre più giovani rispetto al passato: è corretto? Da che età si inizia a consumare alcolici?

Sì, è corretto, e ultimamente si inizia anche a partire dai 13 anni. L’età media si è di molto abbassata e in termini sistemici e psicodinamici le motivazioni sono abbastanza complesse: di sicuro c’è un’inversione di ruoli tra genitori e figli, con bambini e ragazzi chiamati a crescere senza avere il tempo di completare il proprio percorso e genitori a cui sfugge il proprio ruolo. Si viene a creare una situazione inadeguata per tutti, rispetto all’età ma anche allo sviluppo psico-affettivo. Alla base c’è il concetto stesso di famiglia che, per com’è tradizionalmente strutturato, non è più adeguato alla nostra società. Noi siamo l’effetto di quella che è la società: quello che sta succedendo di questi tempi non rispecchia l’inferno che ognuno di noi ha dentro? Sul grande puoi intravedere la stessa struttura del piccolo.

Cosa può fare un genitore per prevenire che i figli facciano abuso di alcol?

È importante che pratichi un ascolto attivo, in un dialogo che in famiglia deve avvenire naturalmente, senza assumere posizioni critiche con frasi del tipo: “Quando ero giovane io…”: così facendo rischia di perdere la capacità di comprendere, irrigidendosi senza davvero riuscire a ricordare di essere stato adolescente a sua volta; questo atteggiamento in cui gli adulti sono i docenti e i ragazzi i discenti è pesante per i ragazzi che subiscono la situazione. I genitori dovrebbero essere quasi dei “compagni di giochi”, anche quando i giochi si fanno seri, e fare la differenza con processi meno direttivi, meno volti a dare una lezione. Ogni cosa ha un suo lato oscuro, ma non lo si deve abbracciare in toto né ricacciare indietro vedendo tutto come un fattore di rischio. È una sfida che implica una assunzione di responsabilità profonda ma che permette anche di avere un nuovo modo di interpretare i problemi, che diventano meno catastrofici e più affrontabili.

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