Dello stupro di Palermo stanno parlando tutti. Ci sono prove inconfutabili e visibili della violenza. Video, foto e parole (portatrici di ulteriori immagini) che certificano che la violenza c’è stata, che ancora una volta è incredibilmente accaduta davvero e non ci sono scappatoie per dubitarne.
Cento cani sopra una gatta, dicono. Così incontrovertibile, nitido e evocativo che chiudendo gli occhi si può vedere la violenza accadere davanti a sé, o, per alcune, attraverso di sé. E allora giù di ricondivisioni e di commenti. Spopola la perplessità, il timore, l’inorridimento.
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Eppure lo stupro è una cosa normale.
Lo stupro zittisce o scioglie la lingua
Lo stupro mozza il fiato delle sopravvissute – di ieri e di oggi, e di quelle che verranno, perché verranno – imbriglia i loro corpi in un dolore che si riverbera ad ogni accenno o parvenza di corrispondenza con l’evento traumatico vissuto. Lo stupro causa afasia, congelamento, umor nero cronici.
Eppure lo stupro è una cosa normale laddove la cultura perpetrata è quella del possesso, dell’aggressività e del potere sessuale. È una cosa normale laddove la parola femminile denunciante non ha, spesso, né autorità né autorizzazione a elevarsi ed è destinata ad essere schiacciata.
Al contrario, in chi esercita o in chi assiste allo stupro la lingua si scioglie.
La grande assente
In una parabola immaginaria che va da Giulia Tramontano allo stupro di gruppo di Palermo, è tutto un gran parlare. Assente, la voce femminile: l’una perché morta (e inascoltata quando in vita), l’altra perché esautorata nella sua richiesta silenziosa di restare invisibile. Assenti, nel dibattito pubblico, allo stesso modo, le storie sepolte di altre vittime – morte o sopravvissute – che non hanno varcato la soglia minima dell’indicatore dell’engagement, perché non abbastanza giovani, non abbastanza incinte o non abbastanza morigerate, oppure vittime di violenze non abbastanza drammatiche e sanguinolente.
Parlano gli stupratori
Parlano gli stupratori della diciannovenne, parlano gli assassini, parlano gli amici degli stupratori e degli assassini, parlano le madri, parlano i padri, parlano i garantisti a gettone, parlano gli influencer avidi di monetizzazione, parla Tik Tok con i cloni degli stupratori, parla Telegram e i suoi affiliati a caccia dello spettacolo dello stupro – perché, si sa, lo stupro attizza –, parla la destra e parla la sinistra, issando, ora la bandiera dell’inasprimento delle pene, passando per la castrazione chimica, ora la bandiera della protezione.
Parla Marco Cartasegna che, piccato, confuta i claim del femminismo, parla una fauna eterogenea e nebulosa sotto i post di Facebook che decuplica la violenza, con cui si cerca di colmare l’inattività e l’insipienza reale con una condivisione social, parla chi non ha mai parlato, parla chi vuole sentirsi migliore e diverso, nel trionfo di sé e della spettacolarizzazione del dolore altrui.
Dal caso alla norma
Lo stupro di Palermo è giunto agli onori della cronaca e ha travalicato il giorno di vita mediatica colpendo tutti quanti, ma casi di violenza così infernale e perversa ce ne sono molti da una latitudine all’altra del globo.
Così tanti e ogni giorno, che è su per giù un cinquantennio – con l’avvento dell’autocoscienza in Italia ad opera di Carla Lonzi – e in forma più sistematica e meno privata dal 2017 con la propagazione del Me Too che le voci femministe instradano gli eventi in una più complessa e stratificata cultura dello stupro, che provoca casi di violenza di varia entità così frequenti da essere inseriti all’interno della categoria del normale, piuttosto che del casuale.
Lo stupro è un effetto banale e prevedibile della nostra cultura.
L’architettura della cultura dello stupro
La cultura dello stupro prospera laddove vi siano architetture verticistiche e, allo stesso tempo, labirintiche, di differenza sociale, in cui un soggetto è l’Unoe tutto il resto è altro o, meglio, Altra, Seconda. In tale contesto, il potere è la linfa che lubrifica i rapporti umani e si esplicita attraverso il possesso innegato o la prevaricazione imposta.
Il potere è maschio ed è attraverso la filosofia della sopraffazione e la tecnica del sesso che si consolida, il possesso è il drive atavico di mantenimento della condizione di potere e, nei casi come quello dello stupro di Palermo in cui è interessato un gruppo di uomini la frenesia si amplifica, passando da un individuo all’altro, fino a sfumare i confini dell’individualità e diventare una massa informe guidata dalla smania di dominio reale e immaginario.
Le nostre città
Nella città dello stupro, il catcalling è complimento, la gelosia forma d’amore, lo schiaffo momento di rabbia, la passività femminile virtù, la disseminazione del piacere maschile su donne-oggetto interscambiabili tappa fondativa della crescita, la parola maschile legge, la parola femminile insurrezionale, l’aggressività sexy, il femminicidio una notizia di cronaca nera.
E le nostre città sono città dello stupro. Cosa vi aspettavate? Cosa ci aspetta domani? E perché proprio un’altra donna molestata, stuprata o uccisa?
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