La “Linea Blu” tra Israele e Libano, teatro della resistenza degli italiani

Tra caschi blu e civili le teorie sulla guerra sono diverse. Tra chi sostiene l'inevitabilità della guerra e chi invece vuole combattere per la pace, si vive di giorno in giorno in attesa della prossima bomba e del prossimo allarme

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Sulla “Linea blu“, il confine infuocato tra Libano e Israele, cercano di vivere e non solo di sopravvivere migliaia di italiani che quotidianamente provano sulla loro pelle il terrore di un conflitto di cui non si vede la fine e di cui forse non si è ancora vissuto l’inizio. Tra caschi blu e civili, le emozioni sono sempre le stesse: paura, rabbia e voglia di normalità. In un territorio che da anni conosce il rumore delle bombe, il sapore della terra e l’odore della morte, si cerca quel minimo di quotidianità a cui noi Occidentali siamo abituati e quasi desensibilizzati.

Dopo il 7 ottobre è chiaro che nulla è più come prima” dichiara Annalisa Dicandia, maggiore dell’esercito di stanza a Shama, in Libano, a soli 11 chilometri dalla Linea Blu, “ma a Tiro ho visto bar e negozi aperti e gente andare al mare, credo che ormai dopo tanti anni i libanesi, ma anche, dall’altra parte del confine, gli israeliani si siano abituati a vivere così, tra allarmi e sirene, esorcizzando a loro modo la paura del pericolo incombente“.

Lo confermano anche gli abitanti del kibbutz di Sasa, nel nord di Israele, abitato prevalentemente da italiani. Alcuni di loro sono fuggiti, ma in 50 sono rimasti per proteggere il territorio, le abitazioni e i frutteti. In questa parte di mondo, però, le speranze sono diverse e la rabbia contro i Caschi blu dell’Onu è palpabile: “Non fanno rispettare il mandato della Nazioni unite. Hezbollah dovrebbe stare al nord del fiume Litani, ben lontano da noi, invece addirittura ci filmano e possono sparaci addosso in questo momento“. Ma coloro che sono rimasti hanno un mantra e lo ripetono anche a Il Giornale: “Noi non molliamo“.

Sulla Linea Blu i soldati Unifil “resistono per la pace non per la guerra

Il maggiore Dicandia ha raccontato al Corriere della Sera cosa voglia dire vivere sull’orlo di un conflitto, il tentativo di controllo delle emozioni che si opera e allo stesso tempo la forte speranza che si ripone nel proprio Stato, che si assume il compito di proteggere la salute e soprattutto la vita di coloro che indossano la divisa dell’esercito italiano. “Sentiamo gli scambi di colpi in lontananza e sappiamo che la situazione può cambiare in un attimo. Ma non abbiamo paura, la paura a questi livelli si gestisce” ammette Dicandia, sostenendo che i plotoni in ogni caso sono pronti: “Se scatta il livello 3 di allarme, cioè il livello massimo, elmetto, giubbetto e ci ripariamo nel bunker“.

Le preoccupazioni, comunque, non mancano ma sono proprio le parole del ministro della Difesa Crosetto a riportare un minimo di tranquillità: “Ho sentito il ministro Gallant, ci siamo scambiati informazioni e impressioni sulla situazione e sulla sua possibile evoluzione. L’Italia continua a lavorare per favorire il dialogo, stemperare la tensione ed evitare una gravissima e pericolosissima escalation“. Queste sono anche le parole che Dicandia riservai ai suoi preoccupatissimi genitori: “Non state in pena per me, io sono qui per la pace non per la guerra“.

Il maggiore dell’esercito ha sostenuto che dal suo arrivo a Shama, lo scorso 26 luglio, l’allarme 3 non è ancora scattate, “neanche nelle basi avanzate, quelle a ridosso del confine“, anche se di notte si sente il rumore dei droni, che comunque “fa dormire“. Cosa manda avanti però questa missione? Dicandia lo riassume bene in poche parole: “La gente, nel sud di Tiro, ci ha chiesto una sola cosa, ovvero che torni presto la pace, la normalità. Si fidano di noi, dei Caschi Blu“.

La rabbia e la paura del kibbutz degli italiani nel Golan

Gli abitanti del kibbutz di Sasa sono abituati alle esplosioni e agli allarmi, eppure la rabbia che monta nei confronti di chi dovrebbe prevenire i conflitti è troppa. Le fughe costanti nei bunker, per evitare di morire, iniziano a far sentire il loro peso. Inoltre, le autorità hanno avvisato gli abitanti che in caso di attacco potrebbero mancare acqua ed elettricità per diversi giorni. Angelica Calò Livne, una dei residenti ha dichiarato dura: “Ci vivo lo stesso nella mia casa nel kibbutz, con mio marito, ma dobbiamo stare al buio e chiusi nella stanza blindata, come ai tempi di Anna Frank“.

Il motivo di questo problema per Calò è chiaro: “Hezbollah e l’Iran vogliono solo distruggerci“. Così, nel kibbutz gli abitanti si sono attrezzati: bunker, kti di pronto soccorso, materassi, barelle e soprattutto armi. Calò dichiara di non aver mai posseduto un’arma prima del 7 ottobre, ma ora non si separa mai dalla sua Beretta, che tiene “a portata di mano perché non possiamo più morire senza difenderci“. Anche Luciano Assin, altro residente del kibbutz, ha le idee piuttosto chiare su ciò che sta accadendo: “La guerra con Hezbollah e l’Iran è inevitabile. All’Occidente dico che non siamo noi il problema“.

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