Il voto cambierà poco l’Europa, molto di più l’Italia

Alle urne con l’incognita astensione che rende meno affidabili del solito i sondaggi. Con un’affluenza sotto il 50% molte previsioni potrebbero risultare sballate. Comunque vada, l’esito elettorale sembra destinato a cambiare poco in Europa, molto di più potrebbe cambiare negli equilibri politici italiani, sia nella maggioranza che nelle opposizioni

Jean-François Paul de Gondi
4 Min di lettura

Mai come questa volta i sondaggisti si muovono con prudenza nella loro arte divinatoria. Chi vince, chi perde nel voto per il Parlamento europeo non dipende solo più dalla campagna elettorale o dal carisma del leader. Questa volta potrebbe pesare più del solito il dato sull’affluenza alle urne, previsto in forte calo da tutti i sondaggisti fino a bucare la soglia del 50%. Se la previsione dovesse rivelarsi azzeccata, le conseguenze sulle percentuali dei singoli partiti, in particolare di quelli minori, potrebbero essere significative, e non certo in positivo.

Un’affluenza sotto quella soglia sarebbe un dato politico non trascurabile e difficile da archiviare come la reazione scontata degli elettori a una competizione, quella europea, poco sentita dalle tifoserie. Se meno di 1 elettore su 2 si reca ai seggi non sarà soltanto per la giornata di sole che invoglia ad escursioni più rilassanti che non il chiuso della cabina elettorale. Quanto meno sarà da considerare l’ipotesi che la decennale disaffezione per la politica si sta trasformando nella richiesta insistita di una nuova offerta politica, nella domanda di nuove modalità, di un linguaggio meno urticante e più aperto al confronto, di una lotta politica alleggerita delle troppe pregiudiziali destinate, si sa, a saltare una volta conclusa la campagna elettorale e tornati alla prosa quotidiana di cui si nutre la politica.

Se gli ultimi sondaggi, secretati per quella strana legge sulla par condicio che benda gli occhi agli elettori italiani ma non agli altri nel resto dell’Unione, troveranno conferma una volta aperte le urne, tanto Meloni quanto Schlein potranno guardare nei rispettivi campi e avviare quelle operazioni di riequilibrio secondo le indicazioni ricevute da un manipolo di elettori.

Come dovrà regolarsi, per esempio, una Meloni che vedesse il suo partito tre volte più votato della Lega? E Tajani, cosa avrebbe da chiedere quando dalle urne uscisse una Forza Italia rinsanguata e non più moribonda come tutti la immaginavano con la scomparsa del suo fondatore-padrone? E Salvini, per dire, quanto potrà recalcitrare di fronte a un’impietosa evidenza numerica sancita dagli elettori?

Si gira lo sguardo nell’altro campo e gli stessi problemi, ovviamente senza le comodità e gli agi di chi ha il potere, occuperanno Elly Schlein alle prese con un Conte che potrebbe trovarsi con un risultato “faticoso” (eufemismo ai limiti del sarcasmo usato da Goffredo Bettini in un colloquio con “il Foglio” di sabato 8 giugno). Che fare con lui? Alzare i toni del confronto e renderlo meno vellutato, oppure cogliere la sua eventuale debolezza per imporre un revirement strategico?

Per tacere dei due convitati di pietra, Renzi e Calenda, che affrontano il giudizio degli elettori né più né meno come il famoso “o la va o la spacca” con cui Giorgia Meloni si prepara al referendum costituzionale sul premierato. Se uno dei due supererà lo sbarramento del 4%, Schlein rimarrebbe inchiodata alla logica del campo largo. Nel caso sia Calenda che Renzi dovessero andare oltre il 4%, le fatiche di Schlein raddoppierebbero. Però, attenzione: nel caso nessuno dei due riuscisse a superare la soglia di sbarramento, ci sarà una quota importante di elettori moderati senza rappresentanza parlamentare. E a nessun, Schlein o Tajani o Meloni sarebbe consentito di trascurare quegli elettori che saranno decisivi alle prossime politiche.

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