Il senso di Draghi per l’Europa

L’ex presidente della Bce indica la luna, i partiti guardano il suo dito che indica la luna. Il cambio di rotta “radicale” proposto (per Draghi le parole conservano il loro significato) parte dalla competizione interna da trasformare in una politica industriale comune per trasferire la competizione verso gli altri attori mondiali (USA e Cina). Devono cambiare le procedure decisionali a Bruxelles per dare slancio all’ “industrial deal”, dalla tecnologia ai sistemi di difesa. È l’Europa che deve scuotersi, per Draghi il futuro è adesso, il presente è già passato.

Jean-François Paul de Gondi
8 Min di lettura

Il rapporto sullo stato della competizione interna nell’Unione europea è stato elaborato da Mario Draghi con l’accuratezza del professore di economia e con il respiro e la potenza visionaria che solo un politico di elevato standing può esibire. La foto dell’Unione scattata da Draghi è quella di un pachiderma dai movimenti lenti e impacciati, che si agita ma non si muove perché non sa quale direzione prendere. L’Europa che si preoccupa di darsi nuove regole per la competizione al proprio interno ignora che la competizione, quella vera e decisiva, è all’esterno dei propri confini. È con la Cina e gli Stati Uniti, riguarda il digitale e l’AI, la decarbonizzazione dei processi industriali e la conseguente transizione green da affrontare nella sua dimensione globale, quindi con riguardo particolare all’impatto sociale.

Prima ancora del “chi”, la questione vera riguarda il “comerealizzare processi di cambiamento tanto radicali senza prima mettere mano alle procedure decisionali che regolano la vita dell’Unione. Queste domande ci sono nel rapporto Draghi e ad esse devono trovare una risposta i governi nazionali, dunque la politica, dunque i cittadini che fra il 6 e il 9 giugno andranno alle urne per rinnovare il Parlamento europeo.

Come tutti hanno potuto apprezzare, l’uomo esorcizza qualche momento di impazienza sfoderando un sobrio humour british. Ai giornalisti che lo interrogavano sul suo futuro e sulle candidature a questa o a quella carica per la quale era indicato da qualche politico, Draghi ringraziò tutti e a tutti assicurava che un lavoro se lo sarebbe cercato da sé.

La relazione presentata a La Halpe non è una domanda di lavoro presentata all’Unione. Sarebbe svilire un’analisi condotta da un politico che ama l’Europa e con essa identifica la missione della propria vita. Ne ha dato prove ripetute nel corso degli anni. Chi lo ricorda pronunciare il fatidico “whatever it takes” per salvare l’euro dalla tempesta finanziaria che minacciava la sparizione della moneta unica, ricorda un banchiere impegnato ad assolvere al proprio compito. E sbaglia. Salvare una moneta, ancorché giovane, non è opera di tecnici. E salvare l’euro, poi, moneta di ancoraggio per 18 Paesi, è stata una grande operazione politica. Draghi ha dovuto piegare la diffidenza della Germania di Merkel e la resistenza coriacea del suo banchiere centrale, all’epoca Jens Weidman, ma l’ha spuntata come solo a un politico intelligente poteva riuscire. Se poi riesci a far salire sullo stesso vagone il presidente francese, Macron, e il cancelliere tedesco Scholz, e condurli a Kiev sotto le bombe per esprimere il sostegno dell’Unione al popolo ucraino aggredito da Putin, non puoi essere considerato un tecnico.

Draghi è un politico, se proprio si vuole è un politico dotato di approfondite conoscenze tecniche in materia di economia e finanza, ma la sua specialità è la rabdomanzia. Sa evocare e riconoscere le forze che guidano la storia europea, ne conosce i limiti e i pregi, sa intuirne la collocazione giusta e il giusto peso che possono occupare sulla scena mondiale. Non è l’elogio della persona che qui si vuole scrivere, ma solo riassumere le qualità che a turno, in momenti diversi, tutti i leader, di qua e di là dell’Atlantico, gli hanno riconosciuto.

Un politico senza un partito alle spalle, e senza neppure la vaga tentazione di averne uno. Un tipo così cammina nel presente come, appunto, un rabdomante in cerca di futuro. Può essere lui il traghettatore dell’Unione europea? Può essere lui a tirarci fuori dal pantano delle diatribe e delle polemiche stantie? Ci vuole l’accordo dei partiti, è ovvio, dicono da destra e da sinistra. Dicono, ma intanto non hanno messo in campo opzioni di alcun genere. Bene fa Meloni a ricordare che è inopportuno pronunciarsi sul ruolo di Draghi o di chiunque altro prima che i cittadini europei abbiano votato. Ma i cittadini europei votano per un partito, Draghi, invece, non chiede il voto dei cittadini per proporre il futuro. Lui si rivolge ai partiti, votati dagli elettori, per sapere che idea hanno dell’Unione. Che idea hanno e che percorsi immaginano per costruire una difesa comune, e quindi un’industria degli armamenti non più su base nazionale, ma concentrando le spese a livello europeo con beneficio per i contribuenti e con guadagno di efficienza e di innovazione tecnologica.

Qualcuno ha sentito discorsi simili fatti da questo o quel leader? Non possono farli, per la ragione semplice che parlare di guerra mentre Putin la conduce da due anni sulla soglia di casa nostra, non è attrattivo per gli elettori. I partiti devono bisticciarsi per strappare voti agli avversari e perfino ai propri alleati. Oltre, non hanno il coraggio di andare. L’analisi fatta da Mario Sechi, sul numero di Libero di mercoledì 17 febbraio, è l’analisi di un osservatore quant’altri mai attento ed equilibrato. Ha ragione di sostenere che in difetto di politica l’Europa non può pensare di affidarsi altecnico” né Draghi può pensare di cambiare l’Europa senza o contro le forze politiche, né le forze politiche possono intessere grandi coalizioni venendo meno al mandato elettorale o piegandolo a un progetto mai sposato in campagna elettorale.

L’analisi europea di Sechi contiene, però, un vizio per così dire di metodo. Egli guarda con occhi italiani a una scena molto più ampia. L’Unione europea che deve cambiare, e cambiare radicalmente, non può farlo affidandosi a schemi bipolari, maggioranza e opposizione, destra e sinistra. No, la posta in gioco è il futuro di una comunità sempre più simile a un melting pot di problemi sociali, di sicurezza, di industrie da riconvertire, di innovazione tecnologica da avviare, il tutto su una scala che trascende i confini della nazione, e deve competere non più l’industria francese con quella tedesca o danese, ma l’industria europea con quella americana o cinese.

È un cambio di paradigma di dimensioni bibliche. Un salto di era geologica di fronte al quale gli schemi della nostra politica appaiono risibili e figli di un altro tempo, un tempo passato e polveroso. Draghi o chi per lui dovrà condurre l’Unione attraverso le acque del Mar Rosso, sperando di trovarle separate per condurre questa generazione verso la Terra promessa degli Stati Uniti d’Europa. Era il sogno dei padri fondatori, di De Gasperi, Schumann, Henry Spaak, Adenauer. Tutti, non si sa se per una fortuita coincidenza, cattolici o di formazione cattolica. Proprio come Draghi.

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