Per la sinistra italiana la Costituzione è intoccabile, ma in venti anni l’ha modificata due volte

La prima modifica con il Titolo V, per inseguire il federalismo della Lega, e l’altra con il taglio dei parlamentari per inseguire il populismo grillino

Beppe Santini
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Il 27 dicembre 1947 il capo provvisorio dello Stato italiano, Enrico De Nicola, promulgò la nuova Costituzione repubblicana, e in occasione del settantaseiesimo anniversario si confrontano due correnti di pensiero: chi sostiene che prima di riformarla la Costituzione andrebbe attuata e chi, invece è convinto che i suoi anni li dimostri ormai tutti.

Per la sinistra, la nostra Carta è la più bella del mondo e quindi un totem intoccabile. Peccato però che negli ultimi venti anni siano stati proprio i suoi governi a modificarla due volte, peggiorandola: una con il Titolo V, per inseguire il federalismo della Lega, e l’altra con il taglio dei parlamentari per inseguire il populismo grillino, due riforme pessime fatte in nome del tatticismo politico e non certo di un’accorta visione istituzionale.

Quello del Titolo V fu un blitz senza senso, che mise a rischio la stessa integrità dello Stato portando a una conflittualità permanente tra governo nazionale e autonomie locali e intasando di ricorsi la Corte costituzionale tanto da farla diventare quasi la terza Camera legislativa. L’idea federalista aveva nutrito la speranza che un potere vicino e radicato sul territorio avrebbe consentito possibilità più incisive di controllo e maggiore efficienza.

Ma quello votato dal centrosinistra fu un federalismo basato su presupposti errati e ha favorito la degenerazione del potere decentrato. La riforma del Titolo V ha infatti introdotto un mostro legislativo che ha portato alla cancellazione di ogni controllo da parte dello Stato su entità amministrative che non hanno risposto più a nessuno sulla correttezza del loro operato. Fino dal 1970, ossia dal momento della loro nascita, le Regioni si sono rivelate centri di spesa voraci e clientelari (basti pensare al sistema di potere durato decenni nelle regioni rosse), ma invece di correggere questo vizio d’origine, il centrosinistra nel 2001 spianò di fatto la strada a nuovi abusi e a un’insostenibile confusione di poteri.

Quella riforma ha infatti equiparato lo Stato a ogni altro ente territoriale: “La Repubblica è costituita da Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato”. Un ordinamento, insomma, che ha tolto allo Stato tante competenze cruciali assegnandone moltissime, in modo illimitato, alle Regioni e stabilendo per tante altre la “competenza concorrente”, tanto che lo Stato non ha più potuto ad esempio definire una sua politica energetica nazionale. Per non parlare della Sanità, la cui babele è emersa drammaticamente ai tempi della pandemia.

Un autentico disastro, insomma, molto simile – anche se per motivi diversi – alla deriva qualunquista che ha portato al taglio dei parlamentari, frutto avvelenato di decenni di martellante narrazione anticasta, e anche in questo caso il protagonista assoluto della farsa è stato il Pd, che pur di entrare nel secondo governo Conte decise di vendere l’anima a Grillo, dando il via libera finale alla riforma dopo aver pronunciato ben tre no perentori, con uno sconcertante ribaltamento di posizioni e con i suoi parlamentari costretti nel giro di pochi mesi a smentire clamorosamente sé stessi.

Ridurre il numero dei parlamentari era nei programmi di tutti i partiti, ma quello imposto dai grillini è stato un taglio dissennato in quanto del tutto avulso da un complesso più articolato di riforme e di contrappesi: avevamo un deputato ogni 96.000 abitanti, mentre ora solo uno ogni 151.200 abitanti, e siamo quindi scesi all’ultimo posto in Europa per numero di rappresentanti in proporzione alla popolazione. Il difetto più grande, però, sta nel mancato superamento del bicameralismo paritario, per cui è rimasta la navetta fra le due Camere senza quindi alcun beneficio per l’iter legislativo.

Per non parlare dell’ingolfamento dei lavori di Camera e Senato e della difficoltà di contemperare i lavori delle commissioni, dettagli che non interessano al grande pubblico ma che condizionano pesantemente la produzione legislativa. Insomma, il Pd predica male e soprattutto razzola male: si oppone a ogni tipo di riforma sulla forma di governo innalzando la Costituzione a totem intoccabile quando è all’opposizione, e si sente invece legittimato a modificarla quando governa. Facendo disastri.

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