Riforme: premierato insufficiente se non si supera il bicameralismo

Un monito che arriva da un pulpito autorevolissimo e che governo e maggioranza farebbero bene ad ascoltare

Beppe Santini
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Ha scritto con la sua penna tagliente il costituzionalista Paolo Armaroli: “Per darsi coraggio, Giorgia Meloni ha affermato che il disegno di legge costituzionale licenziato dal consiglio dei ministri è ottimo. Verrebbe da dire ottimo e abbondante come il rancio militare, il più delle volte una schifezza”.

Per Armaroli, infatti, le cose purtroppo non stanno così, “perché la meta del premierato sarà pure luminosa, ma la direzione di marcia non porterà a niente. Peggio, l’eterogenesi dei fini l’avrà ancora una volta vinta. Con il risultato che si registrerà un arretramento rispetto al premierato di fatto con il quale l’inquilina di Palazzo Chigi calca la scena. Ammesso e non concesso che la riforma superi le colonne d’Ercole del referendum confermativo. Altrimenti saranno dolori seri per Giorgia e i suoi cari”.

Un monito che arriva da un pulpito autorevolissimo e che governo e maggioranza farebbero bene ad ascoltare, quantomeno per apportare qualche sostanziosa modifica durante l’iter parlamentare. L’esperienza insegna che le riforme sono sempre una strada accidentata e piena di insidie, e le uniche andate in porto sono state le peggiori in assoluto: quella del Titolo V approvata dal centrosinistra e la riduzione del numero dei parlamentari all’insegna del più deleterio populismo.

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PAOLO ARMAROLI POLITICO

Entrambe, anche se in modalità diverse, andavano nella direzione di assestare un colpo a “Roma ladrona”. La riforma Renzi-Boschi fu bocciata a furor di popolo anche a causa della personalizzazione che il Matteo premier improvvidamente volle, ma – anche se non prevedeva né presidenzialismo né premierato – rafforzava di fatto la forza del governo con la fine del bicameralismo perfetto e con l’accantonamento del Titolo V, che ha decentrato poteri alle regioni anche in settori cruciali per il funzionamento dello Stato.

Ora il governo Meloni si propone ugualmente di rafforzare il potere esecutivo con l’elezione diretta del premier nel tentativo di superare il sistema ereditato dalla Prima Repubblica, che si basava sulla combinazione di governi deboli e di partiti forti. Con l’aggravante che ora ci ritroviamo governi e partiti entrambi fragili, con conseguente indebolimento della politica rappresentativa di fronte agli altri apparati dello Stato, a partire dalla magistratura e dalla burocrazia.

La proposta di riforma costituzionale della forma di governo, con l’elezione diretta del capo del governo, rappresenta un passaggio fondamentale del percorso riformatore, e va di pari passo con l’autonomia differenziata, che – pur con qualche criticità legata ai livelli essenziali delle prestazioni – punta a una profonda revisione dei madornali errori insiti nel Titolo V.

Nel parlamentarismo voluto dai costituenti, il governo ha un potere di influenza sul Parlamento ma contemporaneamente ne è fortemente condizionato, mentre nel “regime di gabinetto” previsto dal cosiddetto modello Westminster, il governo ha gli strumenti per porsi come “comitato direttivo della maggioranza”.

La domanda da porsi di fronte al premierato proposto dal governo è se questo tipo di riforma sarà davvero in grado di centrare l’obiettivo della piena governabilità, e se per farlo non sarebbe necessario ritoccare anche il bicameralismo paritario e il procedimento legislativo, in modo che il governo abbia la possibilità di applicare il proprio programma e il Parlamento non possa bloccare all’infinito le leggi.

E’ insomma l’abolizione del Senato, o la sua trasformazione in Camera delle Regioni, la riforma che manca per sveltire davvero l’iter legislativo, ma per motivi politici contingenti sia la cosiddetta devolution del 2005, approvata dal centrodestra, sia il tentativo di Renzi del 2016 furono bocciati per via referendaria. Ci ritroviamo ancora, così, due Camere che svolgono le stesse funzioni, anche se gli ultimi governi hanno introdotto una sorta di monocameralismo surrettizio, visto che ormai i decreti legge, prodotti in dose industriale, vengono discussi e modificati da un solo ramo del Parlamento, mentre nell’altro arrivano rigorosamente blindati sia in commissione che in aula, e licenziati a colpi di fiducia.

Il superamento del bicameralismo paritario dovrebbe costituire un vero e proprio imperativo: l’’Italia è infatti l’unico Paese al mondo in cui Camera e Senato hanno una posizione assolutamente paritaria non solo nell’approvazione delle leggi, ma anche nel conferimento della fiducia al governo, anche se oggi il rischio di ritrovarsi maggioranze diverse nelle due Camere si è notevolmente affievolito. Ma se il premierato è la madre di tutte le riforme, quella del bicameralismo paritario dovrebbe esserne quantomeno la figlia, perché non basta solo un premier eletto per rafforzare l’esecutivo e garantire allo stesso tempo la centralità del Parlamento.

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