L’anatema di Mattarella contro le riforme del centrodestra

Beppe Santini
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L’impressione era stata subito che Mattarella, dal meeting dell’Amicizia di Rimini avesse lanciato un segnale a governo e maggioranza in vista della ripresa autunnale, e che dunque con la fitta agenda politica d’autunno – dalla legge di bilancio all’immigrazione, dalle riforme istituzionali ai rapporti con l’Europa – la coabitazione tra Quirinale e Palazzo Chigi sarebbe stata molto meno conciliante. Ebbene, l’impressione è subito diventata certezza leggendo i commenti di stamani della stampa di sinistra, il cui leit motiv è stato quello, in verità non proprio originale, del Capo dello Stato in campo per sventare l”attacco alla Costituzione” da parte delle destre.

Nulla di nuovo, insomma, sotto il sole bruciante di agosto. Ma il motivo per cui alcuni giornali si sono sentiti il diritto di fornire l’interpretazione autentica del discorso di Mattarella sta proprio nel tono – accorato ma sferzante – delle parole pronunciate a Rimini. Sull’immigrazione, ad esempio, il metro è stato molto diverso da quello usato ad esempio durante la visita a Varsavia, quando il dito puntato contro l’Europa per le sue “regole ferme alla preistoria” e per il mancato aiuto all’Italia era stato letto come un appoggio aperto alla linea del governo di centrodestra.

Questa volta, invece, quella presidenziale è parsa una presa di distanza dall’esecutivo che si appresta a varare un nuovo decreto sicurezza, perché ha premuto soprattutto il tasto sul tema dell’accoglienza e sull’impossibilità di innalzare muri di fronte a un fenomeno epocale.

Ma l’altolà più vistoso è arrivato sulle riforme istituzionali: in questo senso, la citazione dell’appello ai giovani di Dossetti sulla Costituzione intangibile, fatta interamente propria da Mattarella, non poteva essere più chiara: “È proprio nei momenti di confusione, o di transizione indistinta, che le Costituzioni adempiono la più vera loro funzione: cioè, quella di essere, per tutti, punto di riferimento e di chiarimento… presidio sicuro contro ogni inganno e contro ogni asservimento”. Un messaggio inequivocabile contro ogni velleità di cambiare la forma di governo contenuta nel programma con cui la maggioranza ha vinto le elezioni. Tra le righe è comparso insomma un vero e proprio anatema nei confronti sia del presidenzialismo che del premierato, almeno nella versione che tocca le prerogative del Quirinale.

Non c’è da stupirsi, dunque, se il discorso di Rimini abbia dato la stura alla cavalleria dei nemici del centrodestra, per cui si è letto che l’accordo sul premierato forte è un “segnale inquietante per destabilizzare Mattarella e depotenziare il Parlamento”, come se la questione della governabilità non fosse all’ordine del giorno da decenni, tanto che è stata affrontata da tutte le bicamerali per le riforme (compresa quella presieduta da D’Alema). In questo clima, la battaglia sulla revisione costituzionale si annuncia quindi durissima, magari con il Colle in campo come suggeritore e forse protagonista nella trincea dell’opposizione, anche se la sua parte centrista ha già detto di condividere la scelta del premierato.

Eppure, che la Costituzione nella sua seconda parte abbia bisogno di un sostanzioso tagliando è un dato di fatto ammesso negli anni anche da diversi leader della sinistra. Ma quando al governo c’è la destra, come nel gioco dell’Oca tutto torna al punto di partenza, perché la sinistra ritiene ancora di essere l’unica legittimata a fare le riforme. Anche se quella del Titolo V, varata con una maggioranza risicata nel 2001, ha causato danni irreparabili al funzionamento dello Stato, creando – come ha lucidamente osservato Marcello Pera – “venti repubbliche senza un maestro sovraordinato che non fanno un’orchestra”.

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