Giustizia: promemoria per dire che la riforma non è più rinviabile (al di là delle risse)

La riforma della giustizia spetta al Parlamento e la magistratura può dare il suo contributo ma non dovrebbe avere un diritto di veto

Beppe Santini
7 Min di lettura

La rissa mediatica dell’ultima settimana fra governo e Anm non è stata un bello spettacolo, e se ci sono pontieri in azione per abbassare i toni è meglio per tutti. Ma c’è un principio che non può essere eluso: la riforma della giustizia spetta al Parlamento e la magistratura può dare il suo contributo (nelle forme e nei luoghi istituzionali) ma non dovrebbe avere un diritto di veto.

Diritto che ha invece fatto valere, da Tangentopoli in poi, godendo di un consenso popolare vastissimo nella veste di giustiziera politica, ma dopo lo scandalo Palamara la sua credibilità è scesa ai minimi termini (sotto il 40% secondo l’ultimo sondaggio). L’irriformabilità della giustizia italiana è un problema antico che investe la stessa qualità della democrazia, ma adesso da questa riforma dipende anche l’arrivo delle risorse comunitarie: l’Ue ci chiede – non da ora peraltro, ma adesso gli obiettivi sono stati fissati – di ridurre i tempi dei processi civili del 40 per cento e di quelli penali del 25 per cento.

La giustizia italiana è la più lenta d’Europa (solo la Grecia ha una durata dei processi più elevata). Non solo: negli ultimi dieci anni i cittadini in carcere in attesa di giudizio sono stati costantemente il 35 per cento dei detenuti, contro il 22 per cento della media europea. E 12.583 persone sono state prosciolte negli ultimi tre anni dopo essere finite in carcere da innocenti.

La riforma della giustizia, dunque, non è più rinviabile anche per sanare queste criticità, non solo perché serve a non perdere le risorse comunitarie.

Sulla responsabilità civile dei magistrati va superato il dogma per cui, se pure a distanza di anni il giudizio di appello o di Cassazione certifica che un’inchiesta è stata avviata per motivi penalmente irrilevanti, o addirittura insussistenti, al pubblico ministero non viene mai imputata alcuna responsabilità, perché ogni tentativo di configurarla s’infrange contro il muro dell’obbligatorietà dell’azione penale. Così questo principio costituzionale compie il miracolo alla rovescia di trasformare la più spregiudicata discrezionalità dell’azione penale in un atto dovuto per legge, e nessuno paga mai per le sofferenze di troppi innocenti finiti in carcere. Basti pensare agli inquisitori di Enzo Tortora che fecero tutti carriera.

Un altro punto cruciale della riforma è l’abolizione dell’abuso d’ufficio e il superamento della legge Severino, che prevede l’incandidabilità o la sospensione degli amministratori locali e regionali condannati in primo grado anche per reati minori come, appunto, l’abuso d’ufficio. Si tratta di una palese violazione del principio della presunzione di innocenza sancito dall’articolo 27 della Costituzione fino a che non intervenga una sentenza definitiva. L’anomalia della legge Severino è certificata dalla patologica sproporzione tra il numero di procedimenti aperti per abuso d’ufficio e quelli conclusi con condanna definitiva (poche decine su migliaia di casi). Quindi, è necessario intervenire per tutelare i sindaci che la legge Severino ha trasformato in presunti colpevoli, sospendendoli ingiustamente dai loro incarichi – con ciò violando anche i diritti democratici di chi li aveva eletti.

La riforma Nordio, insomma, serve per riportare la giustizia italiana nell’alveo costituzionale, per un radicale cambiamento del nostro sistema penale e per il superamento dei suoi mali congeniti: la lentezza dei processi, l’abuso della custodia cautelare, il protagonismo delle Procure, il mercimonio di carriere decise dalle correnti, le decapitazioni politiche per via giudiziaria. I guasti causati dalla supplenza della magistratura politicizzata da Tangentopoli in poi sono evidenti, con gli avvisi di garanzia a tutela degli indagati divenuti sentenze di condanna anticipate, con la ghigliottina mediatica costantemente in azione e con lo strumento della carcerazione preventiva trasformato da eccezione in regola. Una deriva alimentata anche dal legislatore, che dopo aver cancellato l’immunità parlamentare si è fatto dettare dall’ordine giudiziario una serie di reati talmente vaghi e impalpabili, come il concorso esterno o il traffico di influenze, che hanno definitivamente consegnato la politica in mano al partito delle Procure.

L’indipendenza della magistratura è un valore costituzionale e non è in discussione, ma non può essere scambiata per impunità assoluta, e non sarebbe un atto di lesa maestà valutare quante inchieste sono state aperte in base a una fittizia obbligatorietà dell’azione penale, con costi altissimi per lo Stato e sofferenze indicibili per gli indagati, e poi finite sistematicamente nel nulla. Così come la separazione delle carriere non è una provocazione, ma un’esigenza emersa in trent’anni di giustizialismo.

Il ministro Nordio, alla vigilia dei referendum dello scorso anno, su questo punto espresse un parere che spiega lucidamente perché le carriere fra giudici e pm vanno divise: “Delle due funzioni del processo penale, non lasciare impunito il delitto e non condannare l’innocente, la seconda è di gran lunga la più importante, non solo per il cittadino, ma proprio per lo Stato, che può anche sopravvivere – sia pur malamente – se non riesce a punire i crimini, ma se condanna gli innocenti perde legittimazione etica e politica, si sgretola e spesso soccombe in modo violento alla ribellione popolare o alla rivoluzione”.

La separazione delle carriere garantisce meglio la terzietà del giudice, ed è insita nel sistema processuale accusatorio adottato col codice Vassalli ma mai pienamente attuato. Nei Paesi dove questo sistema è vigente, dagli Usa al Regno Unito, non esiste la possibilità di transitare dall’una funzione all’altra come da noi. L’Italia è l’unico Paese al mondo dove il pm ha le garanzie del giudice e i poteri del superpoliziotto, senza rispondere a nessuno.

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