La provocatoria scelta di parole con cui Beppe Grillo, riapparso dopo un lungo silenzio, ha esortato a costituire le “brigate di cittadinanza” e ad indossare “passamontagna” per “verniciare panchine” e “ripulire giardinetti” ha suscitato prevedibili reazioni di sdegno: in quelle frasi non c’era infatti nulla di comico, perché rispolverare termini tragicamente in uso negli anni di piombo è solo un segno di irresponsabilità, politica e civile.
Già nell’ottobre scorso il garante-consulente del Movimento Cinque Stelle aveva parlato di “brigate di cittadinanza”, provocando l’ira legittima dei parenti delle vittime del terrorismo, ma il lupo perde il pelo e non il vizio, e Grillo è abituato da sempre a stare in precario equilibrio sull’orlo del baratro, vantandosi di avere scongiurato in questi anni – grazie alla contestazione urlata ma pacifica del suo Movimento – una deriva eversiva del malessere sociale, ma allo stesso tempo ha spesso strizzato l’occhio ai violenti, vedi l’appoggio incondizionato alle incursioni No-Tav nei cantieri della Torino-Lione. Del resto, il linguaggio violento è sempre stato nel Dna di un Movimento nato dal Vaffa-day con la promessa di sfasciare il Parlamento e di radere al suolo la casta politica.
Del suo ritorno dalla Chiesa dell’Altrove nessuno sentiva la mancanza, forse neanche Conte, il quale però in quanto ad avventurismo non può dare lezioni a nessuno, visto che alla vigilia delle elezioni di settembre si era spinto a dire che “togliendo il reddito di cittadinanza, la Meloni vuole la guerra civile”. Il reddito di cittadinanza, d’altra parte, è l’alfa e l’omega del grillismo, ed è stato utilizzato prima come carta vincente per diventare il primo partito italiano nel 2018, squassando i conti dello Stato, provocando una valanga di truffe e alimentando il lavoro nero, e ora per vellicare la rivolta sociale contro le politiche del governo. Come se la deriva assistenzialista fosse un diritto universale da difendere anche con la forza.
L’ultimo show di Grillo, col passamontagna rieletto a simbolo, dunque non va derubricato a semplice buffonata, ma una scivolosa incitazione che potrebbe indurre qualche sconsiderato ad azioni violente. Ci sono, peraltro, episodi del passato che dimostrano come il fondatore dei Cinque Stelle non abbia mai esitato a cavalcare metodi violenti: basta ricordare le liste di proscrizione da lui redatte contro i giornalisti ostili e contro i parlamentari definiti “abusivi” dopo la sentenza della Consulta sul Porcellum. O quando, dopo l’irruzione di un gruppo di squadristi rossi per interrompere un comizio di Berlusconi a Brescia, inneggiò a loro come “alla meglio gioventù italiana”.
Una violenza anche verbale, come la requisitoria che tenne nell’aprile del 2014 all’assemblea del Monte dei Paschi, in cui definì quel consesso “il cuore del voto di scambio e la mafia del capitalismo”. Il nemico giurato del Movimento allora era il sistema di potere comunista ereditato dal Pd col quale poi, cinque anni dopo, il grillismo di lotta e di governo avrebbe stretto senza batter ciglio un patto per varare il Conte bis. Dal Vaffa al potere e ritorno, si potrebbe dire, è la storia di un Movimento che si è fatto casta e ora, in crisi di consensi, tenta un improbabile ritorno alle origini.