Da Tramontano, a Pipitone alla neonata Diana. Su TikTok le vittime si raccontano in prima persona riportate in vita con l’intelligenza artificiale (AI), avatar e sintetizzatori vocali. Fino a che punto ci si può spingere per la visibilità?
Chi sono Giulia Tramontano, Denise Pipitone e la piccola Diana, morta neanche una settimana fa, lo sa tutta Italia. Questo tipo di notizie hanno la capacità di travolgere il web come uno tsunami e di creare un hype assurdo intorno alle tragiche storie delle vittime.
In questo frangente, come in altri casi di cronaca, le persone e i giornalisti commentano il fatto ad oltranza e scrivono, nel 90% dei casi, qualcosa che era meglio non scrivere. Contenuti informativi che non hanno contenuto informativo, lezioncine trite e ritrite raccontate anche male, si riparla in modo approssimativo del femminicidio con due dati buttati lì per fare views in più e così via. Nulla di nuovo, tutto nella norma.
Ciò che, stavolta, non lo è stato è sentire il racconto provenire in prima persona dalle vittime, resuscitate dall’oltretomba tramite sistemi simili all’intelligenza artificiale, avatar e sintetizzatori vocali. Raccapricciante.
TikTok e cronaca
Nelle ultime settimane ha preso piede su TikTok un nuovo modo, di cui non avevamo bisogno, di fare storytelling.
In particolare, c’è un canale che ha deciso di raccontare i casi di cronaca più sanguinari della storia attraverso avatar animati con voci artificiali.
Il canale in questione si chiama “La storia vive” e ha pubblicato il primo video il 17 maggio. In un mese ha già raccolto 50.000 followers e 500.000 likes. Il solo video dell’avatar di Giulia Tramontano ha fatto 2 milioni di visualizzazioni, 149,6 milioni di likes e circa 3.000 commenti.
La rassegna attraversa tutti i casi più famosi. Le vicende sono raccontate in prima persona dalle vittime: il volto ricreato al computer spiega non solo quello che hanno visto quando erano nel proprio corpo ma anche tutto quello che è successo dopo la loro morte.
Il format è il seguente: il defunto si presenta, spiega la sua tragica storia, come si sono svolte le indagini dopo la sua morte, come si è sentito e cosa pensava nel momento stesso in cui gli veniva tolta la vita. Il tutto accompagnato da colonne sonore lente, tristi e pesanti in sottofondo.
Cosa c’entra l’AI?
Tutto questo è reso possibile grazie alle nuove tecnologie. Parliamo di invenzioni simili o in alcuni casi proprio di intelligenza artificiale, la nuova frontiera del web 2.0. l’AI e i contenuti che ne imitano il senso hanno la pretesa di rendere reale o naturale molte cose che non lo sono. Il concetto di “immortalità digitale” è diventato un importante punto di discussione per le aziende di intelligenza artificiale. Giganti come Microsoft e Amazon hanno annunciato che stanno sviluppando tecnologie che vanno dritte in questa direzione.
Esattamente stiamo parlando del fenomeno del deep fake, una tecnica per la sintesi dell’immagine umana basata sull’intelligenza artificiale, usata per combinare e sovrapporre immagini e video esistenti con video o immagini originali, tramite una tecnica di apprendimento automatico conosciuta come rete antagonista degenerativa.
Deep face, deep nostalgia
Alcuni esempi in tal senso sono il deep face e il deep nostalgia, siti e sistemi basati sull’AI che hanno come obiettivo quello di inventare persone o far rivivere i morti.
ThisPersonDoesNotExist.com è un sito che, utilizzando le reti neurali, genera volti falsi, ossia del tutto inventati. Creato da Philip Wang, autore del software di Uber, questo sito utilizza un algoritmo StyleGAN sviluppato dalla NVIDIA Corporation, una rete neurale di tipo GAN (Generative Adversarial Network). Deep nostalgia, invece, serve per far rivivere il passato. Sulla scia di deep face, nel 2021 è apparso un nuovo sistema basato su AI chiamato “Deep Nostalgia”, opera dell’azienda My Heritage. Si tratta di un software che “anima” foto di persone, facendole come “rivivere”.
Ma la vera domanda da porsi è: ne avevamo bisogno? Si può raccontare qualunque cosa in qualsiasi modo? No.
Perché non si può fare?
Partiamo dalle basi. Oltre all’essere raccapricciante e inquietante, questo modo di fare storytelling ha molteplici effetti negativi sul mondo delle news. Il primo è quello di mancare di rispetto alle vittime, alle loro storie, il tutto a favore di qualche visualizzazione in più. Non ci si può permettere di utilizzare qualsiasi espediente per far sì che le storie e le notizie vadano virali: è una questione di decenza.
Il secondo punto è: dove arriveremo? I casi di cronaca, spesso cruenti, hanno bisogno di un certo distacco quando vengono raccontati. Non deve mancare l’obiettività della notizia né il riportarla nel modo più fedele possibile alla realtà senza romanzare niente (altrimenti invece di fare i giornalisti potevamo fare i romanzieri). Tutto questo ha un impatto sulla realtà stessa fino a perdere i confini su ciò che è reale o meno.
L’anestesia al dolore
Altro aspetto da considerare è la sfera emotiva dei fruitori della news stessa. Siamo già bombardati da immagini crude, racconti con dettagli macabri e mille interviste ai familiari costretti a raccontare il proprio dolore davanti ai microfoni per non far morire la notizia e prolungarla il più possibile nel tempo. Tutto questo, però, porterà all’opposto di quello che si vuole ottenere. Non ci sarà più consapevolezza da parte dei lettori, non ci sarà più empatia nei confronti delle vittime, non passerà nessun messaggio di carattere morale, non si costruirà nulla. Quello che si può ottenere con questo sistema di storytelling è semplicemente abituare il mondo ad essere sterile di fronte al dolore, indifferente rispetto alle notizie, specialmente quelle di cronaca. Il rispetto e il modo di raccontare una notizia fanno parte della notizia stessa e non si possono scavalcare i limiti quando si tratta di cronaca e di persone morte poche settimane prima.
Ricordiamoci sempre chi siamo, quali sono i nostri obiettivi, la nostra etica e come fare il nostro lavoro. Siamo giornalisti, non Elisa True Crime (con tutto il rispetto parlando). Va bene reinventarsi e reinventare il modo di narrare le storie, non più con calamaio e inchiostro come nell’Ottocento.
Ma ricordiamoci sempre quale apporto vogliamo dare al mondo dell’informazione e che il nostro obiettivo è quello di lavorare al meglio. Forse così facendo è possibile evitare che il mondo delle news imbocchi una tragica direzione sempre più pornografica e distopica.
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