Le contestazioni alla ministra Roccella al Salone del Libro si allineano a quelle del giornalista e autore di “Triangolo rosso” e dell’ex direttore del quotidiano Il Foglio
Il Salone del libro dovrebbe essere un luogo di confronto democratico e di discussione culturale e politica, ma per la sinistra non è (quasi) mai così: per cui non c’è nulla di sorprendente se la ministra Roccella è stata duramente contestata da un gruppo di attiviste intolleranti, che hanno trasformato la presentazione de “La famiglia radicale” in un presidio di sopraffazione. Il purtroppo famoso fascismo degli antifascisti. Un clima di scontro in cui la ministra ha inutilmente dato una lezione di stile, invitando le contestatrici a parlare sul palco in nome della libertà di espressione che le veniva negata. Un dialogo oscenamente rifiutato, perché l’obiettivo dello squadrismo rosso è sempre quello di impedire ogni forma di confronto con la destra, considerata portatrice di istanze illegittime. “Per motivi di democrazia a voi sconosciuti lascio il palco – ha detto la Roccella – lo lascio ai ragazzi di casa Ugi (Unione genitori italiani contro il tumore dei bambini). E a chi vuole parlare di problemi che spero vogliate ascoltare”. Stendiamo un velo pietoso sul direttore del Salone che, chiamato per ripristinare l’ordine, ha finito per dar ragione all’intolleranza. Anche qui, nessuna sorpresa.
Visto che il tema della contestazione era la posizione della ministra contro l’utero in affitto, il grave episodio di ieri mi ha ricordato un comizio elettorale a Bologna di Giuliano Ferrara, candidato premier alle politiche del 2008 con la lista “Aborto? No grazie”, che si trasformò in un pomeriggio di guerriglia urbana. Duemila persone contestarono selvaggiamente l’allora direttore del “Foglio”, e quando prese la parola iniziarono gli scontri fra polizia e manifestanti, quasi tutte donne. Una contestazione violenta che riportò improvvisamente al clima torbido degli anni Settanta. Questo è purtroppo – ancora – il concetto di democrazia che alberga ancora in gran parte della sinistra, per cui chi non la pensa come loro non ha diritto di parola. Resiste in Italia un allarmante deficit di cultura democratica che ha partorito negli anni i guerriglieri urbani, anticamera, lo sappiamo per esperienza, delle tragiche stagioni di sangue.
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E, drammaticamente, il partito che si chiama “democratico”, questa volta non ha neppure salvato le apparenze, facendo prevalere al diritto per tutti, allo Stato di diritto, alla democrazia piena, il desiderio di piegare il diritto e la democrazia alla parte, al partito. La segretaria Schlein non ha infatti speso nemmeno mezza parola di solidarietà alla Roccella, accusando il governo di non tollerare il dissenso, con un acrobatico rovesciamento dei fatti e delle responsabilità. Dunque: impedire ai contestatori di contestare sarebbe la postura di chi, essendo al governo, starebbe instaurando in Italia una democrazia illiberale, perché senza dissenso non c’è democrazia. Un ragionamento specioso e pericoloso, perché finge di ignorare che in democrazia la libertà di pensiero è un valore costituzionale, e che impedirla con qualsiasi mezzo è una prevaricazione.
Anche qui, nessuna sorpresa: nell’ascesa di Elly Schlein ci sono infatti molti elementi di utopismo post-sessantottino, con la fantasia dell’ Occupy Pd giunta al potere all’insegna di parole d’ordine che ripudiano in modo netto la vocazione maggioritaria per ridurre l’orizzonte ai diritti civili, ai temi bio-etici, alla droga libera, al riconoscimento delle coppie gay, all’utero in affitto, alla modificazione transgenica, all’agenda Lgbt+, al multiculturalismo. Con una mano sempre tesa alla sinistra più intollerante e a quella al caviale che dai suoi salotti parteggia per i violenti no Tav.
Un altro esempio illuminante della strana concezione democratica che vige a sinistra è il trattamento riservato a Giampaolo Pansa: dal 2003, anno della pubblicazione del Sangue dei vinti – il suo primo libro sul Triangolo rosso – il grande giornalista finì nella lista nera dell’antifascismo militante. La scelta di parlare dei crimini dei partigiani a guerra finita non solo gli costò l’espulsione dall’empireo progressista, ma lo espose anche alla violenza fisica degli antifascisti, dei “bravi ragazzi” dei centri sociali e dei collettivi.
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