Germania e Gran Bretagna (con l’eccezione Truss) hanno capi di governo forti ed esecutivi stabili, senza ricorrere all’elezione diretta del premier. In Israele, quando il premier si eleggeva, fu caos
Con le consultazioni avviate ieri dalla Presidente del Consiglio, che ha ricevuto tutti i rappresentanti delle opposizioni, entra nel vivo il dibattito sulle riforme costituzionali. Il centrodestra, che si è presentato alle elezioni dello scorso 25 settembre proponendo il presidenzialismo, sembra pronto a virare verso il premierato, forma di governo su cui si registrano l’apertura del terzo polo, Calenda ha sostenuto il modello del Sindaco d’Italia, da sempre cavallo di battaglia di Renzi, e i primi dubbi della Lega.
Non è la prima volta che in Italia si fa strada l’ipotesi di adottare il premierato, definizione con cui in passato si sono identificate varie ipotesi di rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio dei ministri rispetto ai confini attualmente marcati dalla Costituzione.
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Nel nostro Paese, una sorta di elezione diretta del premier – pur non codificata né nella legge elettorale, né, tantomeno, nella Carta – ha già avuto luogo, nella pratica, in seguito a sei recenti elezioni politiche. Sia in vigenza del Mattarellum che del Porcellum ed infine del Rosatellum, dopo le consultazioni del 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 e 2022, ad accedere alla carica è stato infatti il leader della coalizione più votata: Silvio Berlusconi nel primo, terzo e quinto caso, Romano Prodi nel secondo e nel quarto e Giorgia Meloni più recentemente.
L’assenza di modifiche costituzionali che rafforzassero i poteri del Presidente del Consiglio – come ad esempio la nomina e la revoca dei ministri, ma più in particolare la sfiducia costruttiva – ha comunque determinato, spesso, la nascita di governi deboli e instabili.
Il Governo Berlusconi I, insediatosi nel ’94, durò meno di un anno e fu sostituito nel corso della stessa legislatura (che sopravvisse appena due anni) dall’esecutivo di Lamberto Dini. Le Camere elette nel 1996 arrivarono a scadenza naturale ma nel corso di quei cinque anni, a Palazzo Chigi, dopo Romano Prodi (in sella fino al 1998), si alternarono due governi guidati da Massimo D’Alema e uno da Giuliano Amato. Meglio andò alla legislatura iniziata nel 2001, Berlusconi rimase alla guida del Governo per tutto il lustro ma fu comunque costretto a varare due diversi esecutivi. Nel 2006 si aprì la seconda stagione Prodi che, come quella legislatura, si interruppe dopo due anni. Le elezioni del 2008 videro tornare a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi, la legislatura fu però turbolenta: il governo cadde nel corso del 2011 e fu sostituito da quello tecnico del professor Mario Monti. Meloni, sicuramente, si augura un futuro diverso da quello dei suoi predecessori.
Non è quindi l’elezione diretta del premier in sé – adottata nelle democrazie occidentali solo da Israele per le elezioni del 1996, 1999 e 2001, prima di essere ripudiata – a poter garantire la stabilità che la politica italiana va cercando. Del resto, rimanendo nell’ambito del parlamentarismo, molto stabili sono sistemi che, pur non eleggendo direttamente il capo del governo, adottano disposizioni consuetudinarie o costituzionali atte a rafforzarne il ruolo. Basti pensare alla Gran Bretagna, dove premier è sempre il leader del primo partito, o alla Germania, che per la sostituzione del Cancelliere adotta il sistema della sfiducia costruttiva, un metodo che ha garantito esecutivi stabili pur se formati da coalizioni molto eterogenee. Dal ’49 oggi, i tedeschi hanno avuto solo 9 capi di governo, a fronte dei 31 italiani nonché 25 esecutivi a fronte di 66.
Per ora non si conoscono nel dettaglio i meccanismi che contraddistinguerebbero il premierato targato Meloni, la leader di Fratelli d’Italia ha però detto chiaramente che non ritiene la sfiducia costruttiva risolutiva del problema dell’instabilità politica. Come detto, però, la proposta del premeriato non è nuova nel panorama italiano, possiamo quindi valutare alcune ipotesi fatte in passato.
Ai tempi della bicamerale D’Alema (1997), che poi virò sul semi-presidenzialismo, fu avanzata la “Bozza Salvi”, dal nome del giurista Cesare Salvi, all’epoca senatore diessino, che prevedeva l’elezione diretta del premier tramite un meccanismo secondo cui ogni candidato all’Assemblea nazionale (il nuovo nome della Camera, unica titolare del rapporto di fiducia) si sarebbe dovuto presentare alle elezioni collegandosi ad un candidato Presidente del Consiglio. La stessa Assemblea, in caso di assenza di un candidato premier collegato alla maggioranza assoluta dei deputati, avrebbe dovuto indicare, anche a maggioranza semplice, chi sarebbe stato poi incaricato dal Presidente della Repubblica. Al primo ministro, sfiduciabile solo con una mozione contenente il nome del suo sostituto, sarebbe spettata anche la nomina e la revoca dei ministri ed il potere di scioglimento dell’Assemblea nazionale.
Di premierato si tornò a parlare nella legislatura successiva con l’approvazione della riforma costituzionale del centrodestra bocciata dagli elettori nel referendum del 2006. Anche quel testo prevedeva l’elezione diretta del capo del governo tramite collegamento ai candidati alla Camera dei deputati. La legge elettorale avrebbe dovuto «favorire» la formazione di una maggioranza assoluta e il Quirinale avrebbe dovuto nominare il premier «sulla base dei risultati delle elezioni». Altri strumenti per garantire la stabilità sarebbero stati il potere di nomina e revoca dei ministri e la sfiducia costruttiva, con un accorgimento “anti-ribaltone”, la mozione poteva essere approvata solo dai deputati espressione dei partiti di maggioranza. L’approvazione di una mozione di sfiducia senza indicazione di un nuovo capo del governo avrebbe portato allo scioglimento della Camera.
Dopo 40 anni – tanti ne sono passati dall’istituzione della commissione Bozzi – di infruttuose trattative sulle riforme costituzionali, potrebbe essere il 2023 l’anno buono? Difficile pensarlo, il percorso sarà comunque lungo e si protrarrà probabilmente per tutta le legislatura, per concludersi – stanti le difficoltà nel raggiungere la maggioranza dei 2/3 del Parlamento – con il ricorso al referendum confermativo.
Sicuramente, nel frattempo, si dovrebbe immaginare anche un nuovo sistema elettorale, meglio se majority assuring, e comunque più maggioritario del Rosatellum (che ha prodotto un risultato chiaro nelle elezioni del 2022, ma non ci era riuscito nel 2018). Si potrebbe ripetere, altrimenti, la fallimentare esperienza israeliana, che pur sperimentata per pochissimi anni, costrinse i tre premier eletti direttamente (Netanyauh, Barak e Sharon) alla formazione di debolissimi esecutivi di coalizione e al ricorso, sistematico, alle elezioni anticipate.
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