L’autonomia strategica di Macron? Un salto nel buio per l’Europa 

Massimo Colonna
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Se l’obiettivo del presidente francese è di mettersi alla guida di una “terza superpotenza mondiale” ancora tutta da costruire, ha scelto la strada sbagliata, perché se l’Europa lo seguisse, indebolendo le relazioni transatlantiche, non farebbe altro che assecondare le mire egemoniche di Pechino

In mezzo a una crisi geopolitica epocale tra mondo democratico e autocrazie, tutto era auspicabile meno che la dottrina enunciata da Macron di ritorno dalla missione in Cina, foriera solo di divisioni e di un complessivo indebolimento del fronte occidentale nell’ora in cui sarebbe indispensabile il massimo della coesione. Macron, in nome di un’improvvisata “autonomia strategica”, ha sottolineato la necessità per l’Europa di ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e di essere coinvolta nella questione di Taiwan, su cui Cina e Usa sono ormai ai ferri corti. Ma se l’obiettivo del presidente francese è di mettersi alla guida di una “terza superpotenza mondiale” ancora tutta da costruire, ha scelto la strada sbagliata, perché se l’Europa lo seguisse, indebolendo le relazioni transatlantiche, non farebbe altro che assecondare le mire egemoniche di Pechino, dove infatti si sta brindando, probabilmente a champagne, per festeggiare l’incauta svolta francese. E tanto per far capire l’aria che tira, subito dopo la partenza di Macron, la Cina ha lanciato un’esercitazione militare su larga scala intorno a Taiwan. Al momento, comunque, la posizione della Commissione europea resta salda nella convinzione che la stabilità dello Stretto di Taiwan è di fondamentale importanza e che l’uso della forza per cambiare lo status quo sarebbe inaccettabile. 

Macron, in difficoltà nel suo Paese dopo le elezioni legislative che lo hanno reso un’anatra zoppa in Parlamento, e dopo la prova di forza sulla riforma delle pensioni, sta cercando di recuperare consensi rispolverando la politica gollista di una potenza “differente e indipendente” dagli Stati Uniti, con un balzo all’indietro che non tiene conto dei nuovi rapporti esistenti, in cui l’antica grandeur è un retaggio ormai superato dalla storia, nonostante che la Francia resti l’unica potenza nucleare dell’Ue. Certo, l’obiettivo di rafforzare l’industria della difesa europea è condivisibile, ma per arrivare a un esercito comune ci vorranno anni se non decenni, e il rischio non è quello di diventare vassalli degli Usa, ma di trasformare il Vecchio Continente, senza l’ombrello americano, in una terra di conquista debole e destabilizzata. Perché, volenti o nolenti, la sicurezza europea dipende ancora oggi quasi interamente dallo scudo della Nato. La realtà, dunque, è che dobbiamo solo augurarci che la strategia Usa non torni alla dottrina sia di Obama che di Trump di un rientro nei propri confini, e che anzi rafforzi la presenza anche nel Mediterraneo, per fronteggiare l’accrescimento delle capacità di manovra di medie potenze come la Turchia e l’Iran. Soprattutto l’Italia ha estremo bisogno di un ritorno americano nel Mediterraneo, in cui russi e turchi hanno esteso la loro sfera di influenza, stazionando davanti alla porta di casa nostra. In Libia abbiamo vitali interessi energetici, e siamo i primi destinatari di flussi migratori regolati da attori spregiudicati che aprono e chiudono i rubinetti a loro piacimento (la Wagner agli ordini di Putin non a caso è una delle prime indiziate). Quindi per la sicurezza europea serve più America, il cui sostegno è stato fondamentale per costruire ottant’anni di pace e di stabilità, non un’Europa la cui “autonomia strategica” si trasformerebbe in un salto nel buio, mentre incombe ancora la minaccia di Mosca, che non riguarda solo l’Ucraina, ma l’intero Continente.

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