Uno dei totem ideologici grillini sta per diventare la prima battaglia comune in Parlamento della gauche di cui Conte e Schlein si contendono la guida
Le prove d’intesa tra il Movimento Cinque Stelle e il “nuovo” Pd partono da un dossier rimasto incagliato ai tempi del governo giallorosso: “C’è stata una parte del Pd – ha detto stamani in un’intervista l’ex ministro Patuanelli – che si è opposta all’idea di fissare per legge un salario minimo orario. Adesso mi auguro che queste resistenze siano superate”. E Conte ha incalzato: “Sul salario minimo non possiamo più attendere”. La risposta dem non si è fatta attendere ed è arrivata per bocca della capogruppo alla Camera Serracchiani: “Tutto il partito è favorevole”. Dunque, uno dei totem ideologici grillini sta per diventare la prima battaglia comune in Parlamento della gauche di cui Conte e Schlein si contendono la guida. Gli stipendi troppo bassi “sono un’emergenza nazionale”, per dirla con le parole dell’avvocato del popolo, ma il problema del lavoro povero non si risolve imponendo il salario minimo per legge. Intanto non è vero che ce lo chiede l’Europa, perché le indicazioni comunitarie non sono dirette ai Paesi come il nostro in cui il sistema contrattuale copre oltre il 90% dei comparti lavorativi: una disposizione legislativa finirebbe solo per danneggiare la contrattazione collettiva e indebolirebbe le relazioni industriali, spingendo peraltro una parte delle piccole imprese a recedere dai contratti nazionali e ad applicare un salario minimo più basso di quello fissato dagli accordi. Sarebbe il colmo.
Quali sono le ipotesi più concrete
La strada maestra per difendere il potere d’acquisto è il taglio strutturale del cuneo fiscale sulle buste paga senza danneggiare le imprese. Per aumentare i salari occorre prima di tutto agire sulla leva della crescita e della produttività. Non a caso, i Paesi che hanno visto migliorare la condizione dei lavoratori sono quelli che negli ultimi trent’anni sono riusciti a incrementare la produttività, mentre attuare il modello del salario minimo significherebbe entrare a gamba tesa sulla libertà contrattuale. Il problema dunque è la diminuzione del costo del lavoro per le aziende assicurando una busta paga più pesante ai lavoratori: è qui che bisogna intervenire – e il governo Meloni ha iniziato a farlo – perché siamo il Paese che registra il maggior divario in Europa tra il costo per il datore di lavoro e la retribuzione netta del dipendente.
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La differenza tra Italia e Germania
Se gli stipendi italiani negli ultimi trent’anni sono rimasti fermi e quelli tedeschi sono invece saliti di oltre il 30 per cento è perché la produttività del lavoro da noi è cresciuta solo del 10 per cento e in Germania del 40. E’ dunque la produttività l’unica vera leva per aumentare le retribuzioni, e sarebbe estremamente rischioso scaricare sulle spalle delle imprese l’aumento del costo del lavoro senza un corrispondente incremento della produttività. Il salario non può essere considerato una variabile indipendente dalla salute delle imprese, col risultato di mettere in crisi interi comparti già in difficoltà. Ma a sinistra riecheggiano in tutte le stagioni le vecchie parole d’ordine: tasse, patrimoniale e salario minimo, a cui ora si è aggiunta la settimana corta lavorativa a parità di salario, proposta lanciata dal segretario della Cgil Landini e pienamente condivisa da Elly Schlein, che nella sua mozione congressuale ha scritto testualmente: “E’ tempo di sperimentare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Con la diffusione della settimana di 4 giorni lavorativi può migliorare la qualità del lavoro e il tasso di occupazione, restituire tempo di vita e benessere alle persone, stimolare la produttività e ridurre le emissioni climalteranti. Lavorare di più non aumenta la produttività se si lavora male, mentre lavorare meglio sì. Lo dimostrano le esperienze che alcuni Paesi e alcune imprese hanno avviato in questa direzione”. Peccato che l’esperimento portato avanti in Nuova Zelanda sulla settimana corta abbia dimostrato il contrario, ossia che in quattro giorni non solo era aumentato il carico di lavoro, ma anche l’esigenza di più produttività, con il conseguente aumento dello stress per i lavoratori e la riduzione del benessere. Se imposta per legge in Italia, la settimana corta – adottata da un grande sistema bancario come Intesa San Paolo – metterebbe in crisi il sistema delle piccole imprese che rappresentano l’architrave del sistema produttivo italiano. Ergo: l’alleanza competitiva tra Pd e Cinque Stelle rischia di far sbandare la sinistra verso una deriva sempre più utopistica e lontana dalla realtà del Paese.
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