I rapporti fra Washington e Pechino stanno vivendo una delle loro crisi più serie dal 1979, dove la sfida maggiore da superare sarebbe riallacciare le relazioni ai più alti livelli per evitare il rischio di un decoupling delle due economie, ovvero di rilocalizzare la produzione delle imprese americane fuori dalla Cina in settori ritenuti strategici.
La guerra commerciale tra Donald Trump e Xi Jinping, sembra però avanzare senza esitazione. Casus belli: i dazi imposti dal tycoon. Dal 2 aprile, infatti, il conflitto senza esclusioni di colpi ha visto bloccato l’export di terre rare in risposta ai dazi Usa del 145% sul made in China, e così Pechino ha ordinato alle compagnie aeree del Paese il blocco delle consegne di nuovi Boeing e dei loro componenti.
Leggi Anche
Ed ora, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha lanciato l’ultimo ultimatum al mondo: “O con noi o con la Cina“. Così, con una semplice equazione, il tycoon vuole risolvere i problemi che ha causato: i Paesi che accetteranno la linea di Washington pagheranno meno dazi, mentre gli altri verranno colpiti ancor più duramente. Un bivio che segna un ulteriore inasprimento della posizione di Trump, che intanto ha difeso la guerra commerciale dando un altro colpo a Pechino con il blocco della vendita di microchip alla Cina.
La posta in gioco si alza per il presidente americano, perché questo scontro commerciale frontale con il Dragone rischia di mettere in pericolo altri dossier, ovvero le principali economie esportatrici dell’Asia che sono divenute il principale contendente di litigio tra il tycoon e il Dragone. Pechino infatti si sarebbe aperta ai negoziati con gli States, ma chiede “rispetto“, e Xi Jinping si copre le spalle viaggiando per l’Asia nel tentativo di chiudere più accordi commerciali possibili prima degli Usa. Iniziando il tour dal Vietnam, che per Trump è stato solo l’inizio di uno schema ben architettato per “fregare gli Stati Uniti“.
Tra i due litiganti, però, i Paesi asiatici devono comprendere il da farsi. Così in attesa di una strategia chiara da parte della Cina, corrono a Washington per negoziare un compromesso sui dazi doganali statunitensi, approfittando della sospensione parziale di 90 giorni. I primi fra questi, Vietnam, Giappone, Taiwan.
Vietnam-Usa
Infatti, non appena gli ingenti aumenti delle tariffe doganali sono stati “sospesi“, il 10 aprile, Hanoi ha annunciato l’apertura dei negoziati. Il Vice Primo Ministro, Ho Duc Phoc, è a Washington da diversi giorni, dove ha incontrato il rappresentante commerciale degli Stati Uniti, Jamieson Greer. Il Vietnam, minacciato da sovrapprezzi del 46%, ha assicurato di voler acquistare più prodotti americani, tra cui equipaggiamenti per la difesa. Ma, Washington non abbassa la guardia e sospetta che il Paese, importante centro manifatturiero, stia aiutando la Cina a eludere i dazi doganali americani.
Giappone-Usa
Il Giappone, stretto alleato di Washington e principale fonte di investimenti esteri negli Stati Uniti, rischia una sovrattassa doganale generale del 24%, che si aggiungerebbe alle tasse automobilistiche del 25% già in vigore.
Proprio ieri, infatti, il negoziatore giapponese Ryosei Akazawa ha incontrato alla Casa Bianca, Trump, Greer e il Segretario al Tesoro, Scott Bessent, ma senza fare alcun progresso immediato. Un nuovo incontro è previsto per la fine di aprile e Akazawa ha assicurato che gli Stati Uniti puntano a un accordo “entro 90 giorni“. “I prossimi colloqui non saranno facili, ma il presidente Trump ha espresso la sua volontà di dare la massima priorità ai negoziati con il Giappone“, ha insistito il Primo Ministro, Shigeru Ishiba, dicendosi pronto a incontrare personalmente il tycoon.
Taiwan-Usa
L’11 aprile, Taipei ha dichiarato di aver tenuto le prime discussioni in videoconferenza con “importanti funzionari statunitensi“. Il presidente taiwanese, Lai Ching-te, sta cercando di proteggere i suoi esportatori da tariffe che possono arrivare fino al 32%, ha affermato che l’isola è “sulla prima lista di negoziazione del governo degli Stati Uniti“.
Effettivamente, Washington rappresenta il principale garante della sicurezza di Taiwan, sulla quale Pechino rivendica la sovranità, e come si è compreso, Trump collega volentieri questo sostegno militare americano a questioni commerciali, come quelle con il Giappone e la Corea del Sud. Circa il 60% delle esportazioni taiwanesi verso gli Stati Uniti è costituito da tecnologie informatiche, principalmente semiconduttori, che finora sono stati risparmiati, ma che presto potrebbero essere tassati.
Corea del Sud-Usa
Rimanendo nel settore dei semiconduttori, Seul ha annunciato ulteriori massicci pacchetti di aiuti pari a 4,9 miliardi di dollari e 2 miliardi di dollari per le case automobilistiche. Ma il Paese in ogni caso punta sul dialogo. Il Ministro delle Finanze, Choi Sang-mok, sarà ricevuto la prossima settimana dal suo omologo Scott Bessent. Il rischio che corre la Core del Sud, è che le aziende di semiconduttori potrebbero essere costrette a delocalizzare negli Stati Uniti. Motivo per cui, il governo dovrebbe presentare un concreto schema d’azione, rafforzando la cooperazione internazionale.
Indonesia-Usa
Minacciata da sovrapprezzi del 32%, l’Indonesia ha inviato negli Stati Uniti dal 16 al 23 aprile una delegazione guidata dal Ministro dell’Economia, Airlangga Hartarto. Giacarta sta valutando di incrementare le importazioni indonesiane di prodotti statunitensi, in particolare gas naturale liquefatto e petrolio, per ridurre il suo surplus commerciale di 17,9 miliardi di dollari con gli Stati Uniti.
Singapore-Usa
Il 15 aprile scorso è stato invece il turno di Gan Kim Yong, Vice Primo Ministro e Ministro del Commercio di Singapore, che ha dichiarato di aver parlato con Jamieson Greer, per “spiegare lo status unico delle piccole imprese“.
© Riproduzione riservata