Sotto la montagna di retorica e di immagini più o meno abusate per descrivere l’improvvisa accelerazione impressa da Donald Trump agli equilibri mondiali, cominciano a intravedersi, non ancora chiaramente delineate, le linee di frattura lungo le quali andranno a costruirsi i nuovi equilibri della geografia politica. Si è detto, un po’ troppo precipitosamente, della fine dell’Alleanza atlantica trascurando, per esempio, la possibilità di una sua nuova e più articolata architettura fondata su una diversa distribuzione degli oneri finanziari e delle responsabilità militari. A Trump si sono attribuite, forse per connessione con la velocità delle decisioni prese da Elon Musk, le intenzioni più perniciose per la sicurezza del Vecchio continente, come conseguenza della guerra in Ucraina. È innegabile che una certa e pericolosa confusione domina a Washington, se è vero che ieri l’ex vice di Trump nel primo mandato, Mike Pence, ha sentito il bisogno di intervenire con un post su X in cui, rivolgendosi rispettosamente a Trump, ha fatto notare che non l’Ucraina ma la Russia ha iniziato la guerra. Per dire che certe decisioni, comunicate in tutta fretta, finiscono per essere insidiose e allarmanti proprio per la necessità di trasmettere l’idea della velocità. Salvo poi dover fare marcia indietro, con ciò togliendo efficacia e credibilità alle decisioni medesime.
Parafrasando Mark Twain, si può dire che la notizia della fine della Nato “è lievemente esagerata”, essendo ancora in vita, sia pure ammaccata. Preoccupa di più, invece, la scelta europea di replicare alle mosse di Trump con la sua stessa velocità, trasmettendo l’idea di una lepre che si sente braccata dal cacciatore e dai segugi. L’iperattivismo di Emanuel Macron ne è un esempio. Bene ha fatto a convocare il vertice con alcuni governi, lunedì scorso. Altrettanto bene ha fatto la presidente Meloni a esprimere cautela, e scetticismo su qualche punto, per quanto riguarda la postura da assumere rispetto alle provocazioni americane. L’obiettivo di non interrompere il canale di dialogo fra le sponde dell’Atlantico è una scelta saggia, a determinate condizioni. Prima fra tutte, che il dialogo recuperi un percorso accettabile condiviso, senza più le improvvisazioni fin qui viste. Negoziare la fine della guerra, passando per un cessate il fuoco, le elezioni in Ucraina e infine l’accordo di pace, senza che in nessuno di questi passaggi, ammesso che siano giusti nella loro sequenza, siano coinvolti il governo ucraino e l’Unione europea, è una forzatura difficile da accettare per Zelenski e per l’Unione.
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La questione rimasta nell’aria al vertice di Parigi è di vitale importanza. Chi è titolato a parlare con Trump a nome dell’Unione? Giorgia Meloni è stata proposta dal suo partito come la sola protagonista in grado di lavorare a una possibile mediazione con Washington. Prospettiva sicuramente ghiotta per i riflessi politici più che positivi che promette di restituire. È scattata ieri, invece, la reazione di Macron. L’annuncio che sarà lui, insieme al primo ministro inglese, Keir Starmer, a recarsi a Washington per incontrare Trump è la spia di una competizione non si capisce quanto utile per definire un ruolo incisivo dell’Unione.
Si deve supporre che Macron abbia agito per un riflesso condizionato, figlio del vecchio ordine mondiale che Trump vuole mandare all’aria. Parigi e Londra sono le due potenze nucleari del Vecchio Continente. Siedono entrambi nel Consiglio di sicurezza dell’Onu e dunque hanno il potere di veto da usare eventualmente quando si decideranno le modalità per l’invio di una forza di interposizione in Ucraina, In un quadro solcato dalle turbolenze provocate da Trump l’ultima cosa utile alla Ue sarebbe la competizione fra i suoi principali partner, esattamente quello che Trump e Putin vogliono provocare per indebolirla se non sgretolarla del tutto.
In un’altra stagione politica, attraversare un simile frangente della storia avrebbe offerto il destro alle maggiori forze politiche di evocare quel minimo di spirito di solidarietà nazionale per fronteggiare eventi tanto straordinari. Successe alla fine degli anni Settanta del Novevento, quando l’Italia si trovò ad affrontare il terrorismo. A distanza di mezzo secolo è una minaccia di altro segno che mette alla prova la tenuta complessiva del Paese e delle sue istituzioni. Giorgia Meloni è una leader politica cresciuta in un’altra stagione. Per lei, il verbo bipolare non è diverso dalle colonne d’Ercole valicate le quali si entrerebbe in una terra incognita. Ma appunto in occasioni simili si forgia e si riconosce la dimensione dello statista. Convocare le opposizioni a palazzo Chigi per avviare poi in sede parlamentare un confronto a tutto campo sulla politica estera, sarebbe il passo capace di sparigliare gli schemi senza per questo compromettere l’assetto bipolare dell’Italia. Non è un azzardo, come può sembrare. Sarebbe, invece, la via stretta, visto in quali condizioni versa il campo delle opposizioni, per consegnarsi alla storia come la “patriota” che ha riunificato la politica attorno a una nuova idea dell’Italia. Una tale scelta darebbe nuova linfa e vigore alla linea di politica estera, e maggiore credibilità in sede europea.
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