Ci vorrebbero toni epici, e chi sapesse usarli. Ma non è questo il caso. Perché Matteo Renzi, al pari di Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Carrai, Bianchi e gli altri indagati nel processo Open, ha scelto il tono dell’amarezza per commentare una vicenda non di ordinaria malagiustizia (eufemismo), ma una vera e propria persecuzione giudiziaria, come ha commentato Carlo Calenda, suo sodale di un tempo e oggi politicamente distante. Renzi è stato prosciolto, come prima di lui erano stati prosciolti i suoi genitori per una vicenda di presunte fatture false. Tanto accanimento contro l’ex premier si scatenato nel 2019, con la nascita della Fondazione Open.
Ai magistrati non è piaciuta quella scelta. Le indagini sono scattate quasi in contemporanea all’evento. E allora giù a sbirciare carte, intercettare telefonate, passare ai raggi x dichiarazioni, sospiri, trasalimenti o anche semplici sfoghi.
Il tutto, ovviamente, scandito dall’uso politico della giustizia da parte dei suoi avversari. In testa a tutti, l’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e l’ex avvocato del popolo con la pochette pronta a vibrare di indignazione per ogni notizia che usciva dalla procura di Firenze. L’accusa a Renzi: la Fondaziome Open ha operato in realtà da collettore di finanziamenti per il partito Italia Viva, in spregio alla legge sul finanziamento dei partiti.
Cinque anni, sì, cinque anni sono il tempo impiegato dalla procura fiorentina per arrivare al proscioglimento con formula piena degli indagati che non andavano indagati. Cinque anni con migliaia di giornate di lavoro e di indagini e intercettazioni, il tutto a carico dei contribuenti italiani, per capire che l’indagine neppure andava aperta o che, una volta conclusa, si sarebbe rivelata del tutto inconsistente.
Il pm Luca Turco lascia la magistratura alla vigilia di Natale. Il 24 dicembre l’uomo che ha reso un inferno la vita di un indagato che non andava indagato si ritira, con il curriculum immacolato dopo anni di servizio resi allo Stato e alla comunità. E conclusi con un’azione infamante contro un gruppo di persone innocenti, anzi, colpevoli ma di voler fare politica.
La questione giustizia è diventata ormai la questione centrale nella democrazia. Amministrata come è stata amministrata con Renzi e compagni essa è una vera mina messa sotto le tavole della democrazia. L’uso politico della giustizia riguarda essenzialmente i comportamenti di forze politiche illiberali o acquisite solo in epoca recente al liberalismo e dunque incerte sulla separazione delle funzioni proprie della giustizia dal ruolo della politica. Significativo, ad esempio, è ricordare l’accanimento messo dall’attuale presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, allorché dai banchi dell’opposizione sparava a palle incatenate contro il suo predecessore e contro la sua famiglia, indicandolo all’opinione come la fonte di ogni male. E con lei, quel manipolo di Torquemada che erano, e sono, i Cinquestelle.
È sintomatico vedere oggi le reazioni sulle agenzie al proscioglimento di Renzi. In blackout la coscienza di Meloni e Conte, rare e timide voci di compiacimento dal Pd per il proscioglimento (Guerini, Madia, Malpezzi), parole di soddisfazione da Calenda, vecchio sodale politico di Renzi, Casini, Lupi e Forza Italia. Cioè l’arco, anzi, l’archetto delle forze garantiste sommerse dal silenzio del vasto arcipelago giustizialista. La foto scattata oggi in Parlamento con le reazioni al proscioglimento di Renzi dovrebbe togliere il sonno al ministro Carlo Nordio. Perché con questi chiari di luna, la separazione delle carriere sarà rinviata all’anno in cui Pasqua vien di maggio.
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