Un vero partito di centro in Italia c’è stato per una breve ma decisiva stagione. Era la Dc di Alcide De Gasperi e dei suoi governi. Sempre in alleanza con le forze laiche e riformiste il cui ruolo fu rilevante per l’adesione alla NATO e per la scelta europea. L’Italia è ancora oggi quello che fu deciso allora, deciso con i voti contrari del Partito comunista e dei reduci fascisti raccolti nel Movimento sociale. Dopo di allora, la Dc divenne altro. Il partito “di centro che guarda a sinistra” subì la metamorfosi indotta da lunghi anni di potere. La Dc divenne un partito “centrale”, nel senso che si insediò nella società italiana e i suoi confini elettorali tendevano a coincidere grosso modo con i confini di quella società, dando vita a quell’interclassismo, devastante per le finanze pubbliche, in cui potevano riconoscersi anche quei settori che non la votavano ma ne subivano, e più spesso ne tolleravano, la funzione di partito-guida. Non c’era un’alternativa praticabile, a sinistra, addirittura impensabile era a destra, dove la nostalgia per quello che fu era l’unico collante elettorale. A suo modo, la Dc incarnava una “terza forza” impegnata a bilanciare, da un lato, le pulsioni revansciste mai sopite a destra, e a sbarrare, dall’altro lato, la strada a quello che si considerava, e per un non breve tratto fu, un pericoloso avventurismo a sinistra.
Verso la fine degli anni Sessanta, quando il centro-sinistra aveva esaurito il carburante per le riforme, Ugo La Malfa ricordò con una punta di nostalgia la stagione degasperiana per concludere che furono anni di fervido riformismo, superiore in tutto alle ambizioni dei governi di centro-sinistra. Da allora si è perso il numero dei tentativi di dare vita a una forza di centro. Nel presupposto, sbagliato come si è capito a posteriori, che la Dc avesse lasciato un vuoto impossibile da colmare per il solo Berlusconi.
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Da trent’anni gli elettori premiano in gradi diversi lo schieramento di centrodestra assemblato dalla buonanima. Da trent’anni, tranne le due eccezioni di Romano Prodi, nel 1996 e nel 2006, la sinistra esce sistematicamente sconfitta alle elezioni. Il centrodestra, dopo la crisi provocata da Bossi nel 1995, ha dato vita a un’alleanza stabile, sia pure scossa da qualche scissione (Casini e poi Fini). Il centrosinistra ha vinto due volte e due volte si è sfasciato. E i cocci non sono mai più stati riappiccicati. Quando il vento del populismo ha preso a soffiare con forza, il centrodestra ha retto alla sbronza elettorale di Salvini, il centrosinistra è stato letteralmente investito dal tornado dei Cinquestelle, fino al punto di vedere in Giuseppe Conte “un forte riferimento per la sinistra”.
In tutto ciò, è complicato capire il significato che può avere un partito di centro per di più equidistante dai due schieramenti. Dal momento che il centrodestra è stabile e vigoroso sul piano elettorale, mentre il centrosinistra è da inventare e costruire. Nel primo caso, non si capisce quale sia l’utilità di un partito di centro visto che quel ruolo svolge, e con qualche successo, Forza Italia. Nel secondo caso, un partito di centro potrebbe svolgere una funzione sicuramente rilevante, se non fosse che c’è un ingorgo di leader e aspiranti leader che impedisce la nascita di quel partito organizzato, di tipo novecentesco, come sono Fratelli d’Italia e il Pd, non a caso identificati come ”forze di sistema”. Il primo atto di chiarezza dovrebbe consistere nel dire agli elettori che si vuole costruire una forza riformista e liberale da collocare, a determinate condizioni, nello schieramento di sinistra senza paura di contaminazioni. E si va a trattare, con durezza e pazienza, sul programma. Senza accordo, si corre in splendida solitudine. Ma senza un tale preambolo, l’unico partito equidistante continuerà a essere quello degli elettori, equidistanti dalle urne per qualsiasi elezione.
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