I fiumi d’inchiostro riversati da martedì 5 novembre sono confluiti in un mare di illazioni, ipotesi e congetture tutte in qualche misura plausibili ma altrettanto inverosimili a giudicare dalle prime indiscrezioni sulle intenzioni di Donald Trump. Fino alla vigilia del voto una platea di analisti “amici” assicurava il mondo che la guerra in Ucraina sarebbe cessata dall’oggi al domani. È una slavina di dazi starebbe per abbattersi sulla Cina e sull’Unione europea, definita da Trump “luogo terribile”.
È buona norma prendere con le pinze quello che i candidati dicono in campagna elettorale. Una regola, si può dire, universale. Nel caso di Trump però siamo al paradosso: come potrebbero i suoi avversari democratici rimproverargli di non fare le cose promesse se essi per primi le hanno criticate e contrastate perché pericolose? Le conseguenze del martedì americano non sono fatte per rimanere dentro i confini. Il verdetto elettorale che incorona il presidente della prima superpotenza produce un’onda d’urto che raggiunge i quattro angoli del pianeta. E da ciascuno di quegli angoli sono in molti a scrutare ogni singola parolacapire la direzione di marcia del nuovo presidente.
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Qualcosa su cui gli analisti, da quelli più indulgenti agli altri più esigenti, non si sono soffermati riguarda il contesto mondiale profondamente diverso fra la prima e la seconda elezione di Trump.
Provo qui a elencare le differenze più evidenti. Prima del 2016, anno della prima elezione, non c’era la guerra in Ucraina. Non c’era stato il pogrom del 7 ottobre e l’Iran, senza esporsi in prima fila, continuava ad affidare ai gruppi terroristici il suo odio verso Israele. L’Unione europea si stava preparando alla sfida della Brexit, rimasta incerta fino all’ultimo. In Germania, Angela Merkel aveva da poco concesso asilo politico a 800 mila siriani e si trovava alla guida di un governo stabile, sostenuto dalla große koalition con l’Spd.
Alla vigilia del suo secondo insediamento, a otto anni di distanza, Trump trova una scena radicalmente mutata. Molti dei protagonisti politici di allora hanno passato la mano. Merkel si è ritirata, in Inghilterra sono tornati i laburisti al potere e il premier Keir Starmer è alla rincorsa affannosa di più solidi legami con l’Unione europea avendo il suo Paese conosciuto danni enormi dall’abbandono della Ue. Trump vede messi a rischio quegli “accordi di Abramo”, capolavoro diplomatico con cui riuscì, nel 2020, a porre le basi per il riconoscimento di Israele da parte di Arabia Saudita, Qatar, Bahrein, Emirati Arabi Uniti. Quella trama di iniziative che tante speranze di pace aveva alimentato appare oggi quanto meno logora se non compromessa.
Su tutto, però, il Trump del 2016 non aveva quell’incredibile rogna che dal 2022 è l’aggressione russa all’Ucraina. Si tratta con ogni evidenza del capitolo per lui più spinoso da affrontare perché, come nel domino, dal tipo di approccio che avrà sulla questione potrà registrare le reazioni più o meno amichevoli dei soggetti coinvolti. Primo fra tutti l’Unione europea. A Bruxelles si sono moltiplicate le antenne per catturare ogni singola parola di quelle che pronuncerà da qui al 20 gennaio 2025, giorno dell’insediamento alla Casa Bianca. Trump, si sa, non ama l’Unione europea. La considera una costruzione artificiosa, un luogo inospitale per via della lentezza con cui riesce a prendere decisioni di qualche rilievo. Dividerla e far saltare la coesione comunitaria sono obiettivi su cui punta da sempre e lo dichiara senza troppi giri di parole.
In attesa di definire una strategia più chiara e condivisa sul tipo di rapporti da costruire con la nuova amministrazione, qualche giorno fa la presidente della Commissione Von der Leyen ha annunciato che l’Ue è pronta a dialogare con il nuovo capo della Casa Bianca “per spiegargli la pericolosità della Russia non solo per l’Europa ma per l’intero pianeta”. È un modo insolito, quasi ruvido di rivolgersi a un alleato. In quelle parole c’è tutto l’allarme preventivo scattato nelle cancellerie europe per l’indirizzo che Trump darà alla sua politica estera.
Perché, in fondo, l’Europa ha sperimentato nel primo mandato il suo modo di agire. Trattative bilaterali con i singoli Paesi a ciascuno promettendo un trattamento meno ostile negli scambi commerciali. Quello di Von der Leyen, insomma, è un fuoco di sbarramento a Trump ma anche un invito ai partner della Ue a non cadere nella trappola.
È velleitaria, ad esempio, l’idea di ricavarsi un trattamento di riguardo attraverso Elon Musk. Il geniale miliardario, candidato a essere il tagliatore di teste nell’amministrazione pubblica, è guardato con sospetto dagli altri membri dello staff. Se qualcuno pensa che Giorgia Meloni si sia lasciata incantare nel suo 8n onero a New York, evidentemente sottovaluta l’intelligenza della presidente del Consiglio. Sa bene Meloni che sarebbe una partita impegnativa e persa in partenza quella da giocare con la prima superpotenza del pianeta, si tratti del commercio o della difesa europea. Non si rivolgeva a lei, lunedì 11 novembre, il ministro della Difesa Guido Crosetto quando ha osservato che “il futuro non può essere nella Nazione” perché nessun singolo Paese della Ue avrebbe da solo la forza per competere con Cina e Stati Uniti. Ecco, allora il paradosso di Trump. Come si disse di Putin, all’indomani dell’aggressione all’Ucraina, che aveva risvegliato la coscienza europea, così si può dire oggi di Trump e della sua minaccia di indebolire la Nato se tutti gli alleati europei non porteranno almeno al 2% del Pil le spese per la difesa. Di lui e di Putin forse un giorno si potrà dire che sono stati, per l’eterogenesi dei fini, i veri architetti di un’Unione europea risorta a nuova vita.
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