Gli errori di Kamala, l’astuzia di Donald

Martedì 5 novembre sarà ancora popolo contro élite, esattamente il campo di gioco preferito da Trump. Harris è caduta nella trappola e ha accettato sponsor mediatici ma ingombranti, da Taylor Swift a Jennifer Lopez, da Arnold Schwarzenneger a George Clooney. Trump ne ha trovato uno, Elon Musk, cioè il proprietario di quel potente social media che crea icone e le distrugge. Meglio per Harris se avesse portato un agricoltore dell’Ohio sul palco dei comizi o un metallurgico di Detroit

Jean-François Paul de Gondi
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Sarà anche vero il proverbio americano per cui “non è finita finché non è finita”. A 72 ore dalla fine, però, a guardare la battaglia presidenziale americana dagli spalti europei si può ragionevolmente sospettare che sia in parte compromessa per Kamala Harris. La candidata democratica ha scelto la contrapposizione dura con Donald, lo ha sfidato sul campo della democrazia e delle libertà civili, e lui ha accettato e combattuto alla sua maniera. Con i modi ruvidi, incivili secondo gli standard del bon ton, aggressivo verso la sua avversaria, misogino e volgare verso le donne. Cioè ha liberato gli spiriti selvaggi, o così ha creduto di fare, che appartengono a una certa America o che Trump attribuisce a una larga fetta del suo elettorato. Per chi guarda da questa parte dell’Atlantico, lo spettacolo non ha niente di attraente. Tutt’altro, segnala ormai un allineamento perfetto fra tutti i populismi e Trump è stato, nel 2016, colui che ha sdoganato l’indicibile sempre trattenuto dai freni inibitori. Kamala ha pensato di interpretare, nella prima fase dell’investitura, un’America tranquilla, consapevole dei problemi e degli affanni in cui versa questo passaggio della storia, ma risoluta a conservare e riprendere il suo ruolo di gendarme della democrazia.

Dalla fine di settembre, esaurita la luna di miele del dopo-convention e con i sondaggi che non schiodavano da un pareggio, Harris ha cambiato il registro della sua campagna elettorale. Ha accettato la battaglia in campo aperto senza troppo curarsi delle astuzie del suo rivale, campione ineguagliabile di colpi sotto la cinta e di asprezze e ruvidezze a lei sconosciute. Lo ha accusato di essere un fascista (una volta, una sola lo ha fatto prima di aver capito l’errore), un odiatore seriale delle donne, lo ha inchiodato ai processi e alle denunce per stupro fioccate da settembre in poi. Per Donald-Hulk è stato come per Braccio di Ferro mangiare gli spinaci: ognuna di quelle accuse non lo ha scalfito in nulla, né ha scomposto quel riporto monumentale di carota a cui sono affezionati gli americani. Anzi, quelle accuse le ha sapute trasformare in altrettante medaglie davanti all’elettorato imbufalito delle grandi campagne americane, da sempre ostile al cervellotico galateo del politicamente corretto. 

Trump parla come il popolo, cioè parla come il popolo vorrebbe parlare ma si trattiene dal farlo nel timore di finire dietro la lavagna della cultura woke. Harris ha in qualche modo capito la trappola, se ne è tenuta lontana evitando di sposare le tesi  estreme della cancel culture, madre del pensiero woke. Difficile dire che sia riuscita nell’impresa. Esibire una stella dello star system nei comizi, da Taylor Swift a Jennifer Lopez, dalla figlia di Dick Cheney a George Clooney, non sembra essere stata una grande idea. Nel gioco degli specchi, quelle icone della musica o del cinema, sono il riflesso di quell’élite che domina l’immaginario collettivo ma a cui si ribellano le singole persone.

Tante stars e niente popolo sul palco dei comizi democratici. È stato il limite più grave della campagna democratica. Costruita, impostata unicamente “contro” il pericolo per la democrazia che verrebbe dall’elezione di Trump. Da lui rovesciata e ribaltata “contro” Harris capace di scatenare la terza guerra mondiale se venisse eletta alla Casa Bianca. Agli elettori chi è che incute più paura: Trump o una nuova guerra mondiale da combattere magari per gli ucraini o gli israeliani, cioè Paesi e popoli distanti migliaia di km da Washington?

Si dice: neppure l’economia ha aiutato la corsa di Harris, con i dati sull’occupazione che a ottobre hanno registrato un calo di 12 mila unità, cancellando così la crescita costante dei mesi precedenti. Vero, in parte è così. Ma in tasca agli americani il dollaro si è fatto più pesante negli ultimi quattro anni grazie al calo dell’inflazione e alla crescita dell’occupazione. Sono i dati aggregati che però ingannano. L’America periferica, quella che vive lontano dalle metropoli e sgobba nelle piccole fabbriche o sui campi, ha antenne diverse dai ceti urbani, percepisce i cambiamenti positivi a una velocità inferiore mentre paga subito per le cose sbagliate che combinano i politici di Washington. È in quel divario che Trump sa indirizzare con sagacia le proprie frecce mentre Harris fatica a spiegarme le ragioni, e non ha una ricetta credibile per colmarlo.

La lotta politica in America ha spesso conosciuto scontri più o meno all’arma bianca. Mai, prima di Trump, nessuno, democratico o repubblicano, aveva messo in dubbio il fondamento della democrazia americana: la lealtà alla Costituzione, l’idea del potere che suscita aspre divisioni prima del voto, ma unisce una volta chiuse le urne. Tutto questo è stato, per la mia generazione e per le generazioni venute su dopo la Seconda Guerra mondiale, il mito americano. Forse, come tutti i miti destinato a finire in un angolo della memoria.

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