Viene facile, per chi come Ulisse si lega al palo maestro per non essere travolto dal canto delle sirene, concordare con l’analisi di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 23 ottobre. Il suo realismo può sembrare, ed in effetti è, abrasivo rispetto al mainstream in cui si trovano paralizzate le folle che riempiono le piazze occidentali al grido di free Palestine e, per essere più chiare, in alcuni casi bruciando la bandiera di Israele e quella a stelle e strisce. Da quelle piazze non vuole, non può dissociarsi oltre un certo limite un ceto politico smarrito, timoroso di perdere contatto con quella parte del proprio elettorato che in piazza ci va, alcuni per convinzione, molti in confusione.
Coloro che invocano la pace hanno ottime ragioni per farlo, ed è moralmente nobile sapere che lo fanno anche per quelli più scettici sulla impossibilità di un mondo pacificato finché un solo leader si sveglia avendo sempre una pistola sul tavolo. Vladimir Putin è un autocrate sovraccarico di nostalgia. Per le dimensioni imperiali della Russia zarista, certamente, ma anche per la profondità del potere dell’Unione Sovietica. Quel Paese, osservò lo storico Isaiah Berlin, ha conosciuto la democrazia per un quarto d’ora durante la rivoluzione europea del 1848.
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Se ne ritrasse, spaventato all’idea della complessità e delle procedure necessarie per
praticare la civiltà democratica. L’aggressione all’Ucraina è per molti aspetti l’aggressione a una certa visione del mondo e della vita, alla laicità dei costumi e al dinamismo della società, valori pericolosi per chiunque voglia far coincidere il potere con la propria persona. Pericolosi, e contagiosi per la società civile russa che sopravvive e prospera, a volte come una talpa che scava cunicoli sotto la terra per sfuggire alle insidie e portarne ai suoi nemici.
Altre volte, è il caso di Alexej Navalny, lo fa a viso aperto e a sprezzo della propria vita. Putin non può rinunciare a premere sui confini occidentali della Russia, a far sentire il fiato sul collo dei Paesi confinanti perché solo così può rassicurare il popolo russo sulla continuità della propria grandezza e sulla grandezza della propria missione: contenere l’Occidente, sventare le minacce di quel mondo secolarizzato e senza più una visione verticale della vita, arido di ogni spiritualità.
Sono, a ben vedere, motivazioni collimanti con quelle che spingono il regime teocratico e sanguinario di Teheran nella guerra santa contro Israele. Quelle diplomazie, e l’Italia è fra queste, che ritengono a portata di mano un negoziato di pace in Medio Oriente in realtà professano un ottimismo pericoloso da cui possono venire sventure ben maggiori per la pace. La ragione sociale della teocrazia iraniana, condivisa dai suoi tentacoli terroristici in Libano e a Gaza, è la distruzione dello Stato di Israele.
È la ragione vitale, l’unica su cui si fonda il potere delle barbe dal tempo di Ruhollah Khomeini fino al suo successore Ali Khamenei. Rinunciare a questo obiettivo significa di fatto proclamare la fine del potere teocratico, la sua inutilità essendo venuta meno la ragione sociale. Si è ripetuto un’infinità di volte che tanto l’Ucraina quanto Israele difendendo se stessi stanno in realtà difendendo l’Occidente, la nostra sicurezza e le nostre libertà. Se questa affermazione non è vuota retorica, allora è il caso di chiedersi: che cosa ne sarebbe dell’Occidente il giorno in cui Kiev e Tel Aviv dovessero smettere di difendersi?
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